Perugino

 

Perugino


A lungo fu con fuso il luogo d’origine di Pietro Vannucci detto il Perugino, e ancor oggi resta incerta la sua dato di nascita, che i più ritengono debba porsi tra il 1448 e il 1450, in base alle scarse e contraddittorie notizie fornite dal Vasari e da Giovanni Santi (che lo fa " par d’etade » a Leonardo).

 

 

Non manca tuttavia, chi, accogliendo l’una o l’altra fonte, ritiene doversi anticipare di due o tre anni tale datazione (1445-46), o addirittura posticiparla (1452). Certo è invece che egli nacque, non a Perugia ( come un’errata notizia vasariana e il suo stesso appellativo hanno fatto credere in passato), ma a Città della Pieve (antica Castrum Plebis) da Cristoforo di Giovanni (donde Vannucci o Vannuccioli) e da Lucia Betti.

 


Visione di S. Bernardo
part. dei due angeli

Disegno Sibilla Cumana, Firenze

Arceri, disegno,
Musèe Chantilly


Nessuna altra notizia ci illumina sulla prima attività del pittore, che appare citato in un documento di Città della Pieve, del 1469. La prima notizia utile risale quindi ai 1472, anno in cui il Perugino risulta iscritto nella Compagnia di San Luca a Firenze, ove è presumibile risiedesse da oltre un anno. L’ormai concorde assegnazione al Vannucci delle Storie di San Bernardino, datate al 1473, presume la presenza del pittore a Perugia in quell’anno, ma i primi documenti della sua attività professionale sono di qualche anno più tardi. Nel 1475 infatti il «maestro» riceve la commissione per alcune pitture (perdute) nella Sala del Consiglio perugino e, nel 1478, esegue gli affreschi di Cerqueto, i cui frammenti superstiti costituiscono la più antica opera firmata a noi pervenuta.

 



A tale data, il pittore, ormai celebre, viene chiamato a Roma dal Pontefice Sisto IV per importanti incarichi, come la perduta decorazione della Cappella della Concezione (1478-79) e gli affreschi della Sistina (1481-82). Nel 1484, ancora a Roma, il Perugino collabora con Antoniazzo Romano agli allestimenti per l’incoronazione di Innocenzo VIII. Nello stesso periodo precedenti impegni e nuove commissioni lo obbligano a frequenti spostamenti a Firenze (1482 e 1486) e a Perugia, ove, nel 1485, ottiene la cittadinanza onoraria. Nel 1489 è a Orvieto per trattare sul proseguimento della Cappella di San Brizio, lasciata incompiuta dall’Angelico (l’accordo fallirà nel 1499 e la Cappella sarà terminata da Luca Signorelli); e nel 1490, nel corso dello stesso anno, il pittore, attivissimo risulta presente a Perugia, Orvieto, Firenze, Roma, per partecipare agli allestimenti per l’incoronazione di Alessandro VI (1492), torna ancora una volta a Firenze, dove, nel 1493, prende in moglie Chiara, figlia dell’architetto Luca Fancelli, dalla quale avrà sette figli. Negli ultimi anni del secolo il Perugino alterna il suo soggiorno tra Firenze (grandi pale con Madonna in trono e santi degli Uffizi, di Vienna, e di Cremona, del 1493-94; Compianto sui Cristo morto della Galleria Pitti, del 1495; Crocifissione murale di S. Maria Maddalena dei Pazzi, del 1496; Polittico di Fano, del 1497; Resurrezione della Vaticana, del 1499-1500) e Perugia (Polittico di S. Pietro del 1496-99, e affreschi del Collegio del Cambio, 1496-1500); ma è chiamato anche a Lucca (1494), a Venezia (1494), a Bologna (1497) e a Milano 1498). Nel 1501, per far fronte ai sempre più numerosi impegni, il pittore apre una nuova bottega a Perugia, ove, tranne brevi spostamenti a Firenze, soggiornerà fino al  1506. A questi anni risalgono la Pala di S. Francesco a Monte (1504 ca.), l’Epifania di Città della Pieve (1504), il San Sebastiano di Panicale (1505), la Lotta fra Amore e Castità per Isabella Gonzaga (1505), oggi al Louvre, e la commissione del Polittico di S. Agostino (1501 - incompiuto. Nel marzo del 1506, di nuovo a Firenze, attende alla Crocifissione per S. Agostino di Siena, riceve le commissioni per la Madonna in Gloria per il Duomo (1507) e per la Madonna e santi di Londra (1507), e porta a termine il Polittico dell’Annunziata (1507) lasciato incompiuto da Filippino Lippi.

Dopo un ultimo soggiorno a Roma, ove cura la decorazione della volta della stanza vaticana, che sarà poi detta dell’incendio (1508), il pittore fissa i poli della sua attività a Firenze, ove termina i perduti dipinti di S. Francesco di Siena (1510), e Perugia, ove porta avanti il Polittico di S. Agostino. Dopo il 1510, sempre più brevi e rari i viaggi a Firenze del pittore, che restringe il proprio campo d’azione a Perugia e "contado".

A Città della Pieve esegue in questi anni la Madonna del Duomo (1514) e gli affreschi di S. Maria dei Servi (1516-17). Agli ultimi anni della sua vita appartengono la Trasfigurazione (1517) e il San Sebastiano (1518) della Galleria Nazionale di Perugia, oltre i dipinti di S. Maria Maggiore a Spello (1521), di S. Maria della Lacrime a Trevi (1521), del monastero perugino di 5. Agnese (1522) e della parrocchiale di Fontignano (1522). In questo ultimo centro, forse mentre ancora dipinge la Natività, (oggi alla National Gallery di Londra), muore di peste nel febbraio del 1523.
Un anno dopo le spoglie del pittore vengono portate a Perugia, nella Chiesa di S. Agostino, di cui aveva lasciato incompiuto il Polittico.

 


Testa di uomo,
Londra (S. Giacomo?)

Storie di San Bernardino

Epifania, part., Perugia


Il senso spaziale atmosferico.... è la maggior conquista del Perugino..(C. Gamba)

Quale che sia stato in passato il giudizio della critica sul Perugino, appare oggi evidente che esso va soggetto ad una completa revisione, poiché fondato su quel gruppo di opere che contraddistingue i quarant’anni di attività matura del maestro, dall’exploit della Sistina (1482) all’anno della sua morte (1523), ma che non illustra adeguatamente il valore e il significato della sua singolare vicenda artistica.
 


La carenza di documenti, la perdita e dispersione delle opere giovanili, e soprattutto la errata, ma tenace convinzione che la produzione peruginesca dovesse essere tutta caratterizzata da quelle formule compositive e da quei clichè figurativi propri dell’arte tarda del pittore, hanno per secoli precluso agli studio si utili indagini su possibili sopravvivenze della sua primitiva maniera. Il Perugino è così passato alla storia dell’arte con la personalità di un maestro arrivato, con ormai inconfondibili i segni di uno stile maturo, in cui è quasi impossibile discernere e valutare il peso delle componenti culturali e delle influenze di scuola.

Non fa meraviglia quindi che eminenti studiosi come il Pascoli, il Bottari, il Taja e lo stesso Lanzi, abbiano in passato messo in dubbio persino il suo incontestabile alunnato presso il Verrocchio, che ha invece fornito alla critica moderna (Berenson, Longhi, Ragghianti, Zeri) la chiave per la ricostruzione dell’attività giovanile del maestro, permettendo altresì di stabilire, contro ogni precedente convinzione, che il Perugino ebbe un periodo iniziale estremamente felice, e che gli affreschi della Sistina non vanno più considerati come un punto di partenza nella sua carriera artistica, ma come un punto d’arrivo, e semmai, per taluno, con i segni di un già palese decadimento.

Pur rifiutando, come fallace, tale ultima tesi, non è in fondo contro l’ordine delle cose che un pittore ultratrentenne accusi sintomi di stanchezza, o quanto meno dia inizio a quel processo di recupero e di assestamento della propria arte, in cui l’empito creativo cede pian piano al sentimento riflesso. La storia dell’arte abbonda di casi analoghi; forse meno evidenti, perché non fraintesi come quello del Perugino, il quale, malgrado il suo « cervello di porfido » (Vasari), seppe dar prova di aperto interessamento e di attiva partecipazione alla problematica artistica del suo tempo. Ne fa fede l’eclettismo della sua cultura, che ripropone di continuo, dinnanzi ad ogni singola opera del maestro, il problema della sua formazione.

Appare ormai certo, giusta le indicazioni del Vasari, che il Perugino, dopo un periodo di apprendistato presso un « non molto valente » pittore perugino (che per ragioni, stilistiche e cronologiche la critica ha ormai escluso possa trattarsi del Bonfigli, dell’Alunno, o tanto meno di Fiorenzo di Lorenzo), passò alla scuola di Piero della Francesca, e indi a Firenze sotto la disciplina» del Verrocchio (1470-72).

 




Madonna con bambino
tra due angeli (due part.)

La consegna delle chiavi, Roma

Trittico Galitzin, Washington


Va subito osservato, per rispetto alla logica, che non fu probabilmente il solo desiderio di fama e di denaro, come vuole il Vasari, a spingere il giovane sulla via della pittura (e poi a stimolarlo nella professione), ma piuttosto una palese attitudine e, forse, qualche prima prova positiva nell’arte. Come appare più plausibile che ad attirarlo nell’orbita toscana non fossero i consigli utilitaristici, né le curiose teorie atmosferiche dell’ignoto maestro vasariano, ma le eccezionali testimonianze lasciate in Perugia da Domenico Veneziano, dall’Angelico, da Filippo Lippi e da Piero della Francesca (e non è detto che non fosse proprio qui la sua prima, vera scuola).

 

Anche su questo punto, tuttavia, le parole, nient’affatto malevole, del Vasari, celano una grande verità che mette conto rilevare, e cioè che il Perugino fu particolarmente sensibile all’influenza di fattori esterni, quali la diversità di gusto e di cultura degli ambienti artistici in cui si trovò ad operare, e il successo raccolto con le sue prime, originali creazioni. Ciò non vuoi dire che il pittore mancasse di personalità artistica, ma piuttosto che la sua natura fortemente ricettiva fu singolarmente stimolata dal contatto con altri pittori, cui certo ambì togliere « il grido »; come pure non va considerato mero opportunismo il cercar di soddisfare il gusto dei committenti per la lusinga di una sempre più vasta clientela, ché, anzi, ad un dato momento egli finirà col sottovalutarne il giudizio. Sta di fatto però che quando egli perderà, o rifiuterà, il contatto con i primi ed entrerà in polemica con i secondi, l’arte sua sarà morta.

Le opere giovanili recentemente identificate dalla critica sul filone delle due principali componenti culturali del maestro. la verrocchiesca e la pierfrancescana. portano infatti ben im pressi i caratteri di un eclettismo di ispirazione cui è in gran parte da amputare la loro lunga degenza nel purgatorio delle opere dubbie o di scuola. Oltre a quella fondamentale del Verrocchio, influenze di Leonardo, Signorelli, Pollaiolo, Botticelli e Ghirlandaio si sono riscontrate, in varia misura, nella Madonna con Bambino del Museo Jacquemart-André di Parigi, negli analoghi soggetti del Museo di Berlino e della National Gallery di Londra (tutti databili al 1470-71), e nei Due santi del Musée des Beaux-Arts di Nantes (1476-77); opere nelle quali non è difficile scoprire anche qualche tenace risonanza (o addirittura ispirazione diretta) dell’arte del Pesellino, il cui stile nitido e incisivo appare ancor più evidente in alcuni disegni giovanili del maestro (Berenson). Un altro dipinto verrocchiesco, ormai entrato di diritto nel catalogo del Perugino, l’Arcangelo e Tobiolo della National Gallery di Londra (1470-71), sembra ribadire l’influenza pollaiolesca, tanto da aver sostenuto per un certo periodo l’attribuzione al Pollaiolo stesso. Questa tuttavia va intesa, almeno nel caso specifico, in senso tutto esteriore (quasi esclusivamente iconografico), dato l'opposto vertice cui mirano i due pittori (esempio eloquente: l’articolazione delle dita, che nel Pollaiolo risponde a esigenze fondamentali di dinamismo anatomico, nel Perugino si traduce in un motivo elegante e capriccioso d’arpeggio).

Va dedotto, in linea generale, che il Perugino del periodo fiorentino guardò molto e praticò la maniera di questo o quel maestro, ma fondò l’arte sua su quanto di congeniale gli offriva la cultura artistica del tempo, affidando il superfluo a interpretazioni libere e provvisorie.

Più profonda impronta sembra invece aver lasciato nel pittore l’insegnamento di Piero della Francesca, della cui arte prospettica il Perugino fece fin dall’inizio «professione particolare» (Vasari).

A tale criterio d’ordine formale va infatti, riferita la composizione con architetture in prospettiva e piccole figure di una serie di brevi dipinti con Storie di San Bernardino (Perugia, Galleria Nazionale) che, malgrado la loro originaria mo desta funzione (rivestimento della custodia del Gonfalone del Bonfigli), rappresentano, per la precoce datazione (1473), il primo documento dell’evoluzione in senso rinascimentale del l’arte locale.

 




Annunciazione, Perugia
(due part.)

Madonna con Santa Caterina,
Santa Rosa e Angeli

Visione di San Bernardo,
Monaco


La ormai concorde (discorde il Gamba) attribuzione al Perugino dell’ideazione generale e della esecuzione parziale (Miracolo di Aquila e Guarigione della giovane) di tali opere viene quindi a ribadire l’implicito merito di rinnovatore dell’arte umbra al maestro, che, anche a detta di chi ignorava tanto felice esordio, ne rappresenterebbe « ... il suo Masaccio, il suo Ghirlandaio, il suo tutto » (Lanzi).
 

 

 

Ancora in Umbria altre due notevoli testimonianze del periodo giovanile: l’Epifania della Galleria Nazionale di Perugia (1475-78) e il S. Sebastiano di Cerqueto, frammento superstite di più ampio affresco datato al 1478. Opere che, a prescindere dalle influenze di scuola, d’altronde qui meno evi denti che altrove, si presentano come novità assolute nel repertorio giovanile del Perugino.

Nella prima infatti il pittore, di fronte ad una più complessa composizione (risolta già con felice equilibrio), ci offre la descrizione dettagliata di una piccola folla di personaggi gremiti sullo sfondo di un paesaggio per metà ancora rupestre, e tra i quali si compiacque di ritrarre se stesso. Nella seconda, il primo esempio di nudo, che, con la sua serena e composta anatomia, costituisce il prototipo di ogni sua futura, analoga rappresentazione.

A questa data il pittore, ormai trentenne, ha acquistato largo credito, in patria e fuori. Chiamato a Roma da Sisto IV per affrescare la Cappella della Concezione in San Pietro (1478-79, perduta), egli offre una prova così brillante del suo valore, da il Pontefice ad includerlo nella scelta rosa di artisti cui affida la decorazione della sua nuova cappella (1481-82).

 


Ritratto di Francesco
delle Opere, Uffizi

Crocifissione, Firenze

Se il lavorare a fianco del Botticelli, del Ghirlandaio e di Cosimo Rosselli poco o nulla ripropone al pittore che aveva or mai assimilato l’esperienza fiorentina, egli non si dimostra altrettanto immune dalle influenze del nuovo ambiente. Nei lavori della Sistina infatti si assiste alla singolare circostanza che, mentre i Suoi aiuti (Bartolomeo della Gatta, Andrea d’Assisi. Pinturicchio) già rendono i frutti del suo insegnamento, la formazione del maestro non è ancora compiuta.

 

 

Così nel più personale e certo più felice dei suoi affreschi superstiti, la Consegna delle Chiavi, c’è chi scopre forti influssi (Berenson), o la stessa mano (Steinmann) del Signorelli; chi una preponderante influenza di Melozzo da Forlì (Gamba); e chi (invertendo i termini (li un rapporto stabilito su una tradizionale, ma dubbia interpretazione) qualche risonanza dell’arte solida e monumentale di Antoniazzo Romano (Longhi), con il quale il Perugino collaborerà negli anni immediatamente successivi.

Quale che sia stata l’entità dell’apporto delle singole personalità alla evoluzione stilistica del maestro, sembra comunque evidente che condizione fondamentale ne costituì, più che lo studio della scultura classica, come da taluno è stato proposto, l’accoglimento di quanto nella migliore pittura romana del periodo tradiva comuni ascendenze pierfrancescane.

Oltre le figure, di cui si è già notato quel carattere di solenne, statico plasticismo proprio dello stile di Antoniazzo Romano, anche lo schema compositivo della Consegna delle chiavi richiama per un verso l’arte di un altro grande laziale, Lorenzo da Viterbo, autore della rigorosa prospettiva convergente su tempietto centrale della Presentazione al Tempio (Viterbo, Cappella Mezzatosta, 1468, opera perduta) e del sottostante Sposalizio della Vergine, che colpì il D’Agincourt per quel disporre « ... le figure su di una sola linea o, se si vuole, su linee diritte e parallele », cioè in quell’ordine schierato che costituisce una delle caratteristiche salienti del dipinto della Sistina. Più rilevante è parsa alla critica passata l’influenza Del Signorelli. Se il rapporto tra i due pittori, allievi di Piero della Francesca e forse del Verrocchio, e collaboratori i alcune discusse opere (Crocifissione degli Uffizi) appare ormai scontato, più difficile è stabilire in che misura tali influenze signorelliane restino costitutive dell’arte del Perugino, in genere così aliena, anche nei nudi, da energie anatomiche e certo negata al dinamismo. Anche i dipinti che maggiormente ne risentono ‘ma più nel colorito che nel disegno) come l’Apollo e Marsia (Parigi, Louvre), il San Sebastiano (Stoccolma, National Museum il Trittico Galitzin (Washington, National Gallery of Art), rappresentano esperienze isolate e così difficilmente inseribili nel contesto della produzione peruginesca che la loro datazione oscilla tra il 1475 e il 1490, e la loro paternità è stata più volte spostata in favore del giovane Raffaello. Anche il carattere e l’energia, pacata, che traspare dai volti di alcuni personaggi maschili, e che ritroveremo espressi con maggior vigore nei ritratti di Francesco delle Opere, di Biagio Milanesi e dei Monaco Baldassarre (Firenze, Uffizi) e negli autoritratti degli Uffizi e del Cambio, tutti della fine del secolo, sembra traducano, con discrezione, più dall’arte di un Ghirlandaio che da quella del Signorelli.

 


Polittico di San Pietro
(part. con San Mauro)

Autoritratto, Perugia

Al di fuori d’ogni rapporto d’ispirazione o di suggestione, e all’origine del fascino e del valore di un’opera come la Consegna delle Chiavi, che rappresenta il punto d’arrivo del pittore ormai in pieno possesso dei suoi mezzi espressivi, è comunque da porre la sapientissima organizzazione prospettico-spaziale, in cui figure, architetture e paesaggio trovano un nuovo, ideale collegamento e una nuova proporzione che ne trascende i rispettivi, indipendenti ruoli, per esaltarne il solo peso estetico in virtù di ciò che il Berenson ha definito « poesia dello spazio ».

 


Il decennio seguente i lavori della Sistina (1483-93) è in genere ritenuto per l’artista periodo di stasi o di ripiegamento. Eppure anche nelle opere di questi anni (es. Polittico Albani, Roma, Colli. Albani-Torlonia) scopriamo il Perugino applica to all’elaborazione di quegli schemi e alla definizione di quei caratteri formali che diverranno peculiari dell’arte sua tarda e di quella dei suoi allievi. Lo troviamo soprattutto intento allo studio del paesaggio, al cui sviluppo in profondità e alla cui progressiva dilatazione il pittore affiderà una funzione fondamentale nell’economia del dipinto. In quelle lontane ed aperte vallate, in cui è più vita che nelle figure e più armonia che nelle strutture architettoniche, è forse da ricercare l’ispirazione più pura, certo l’apporto più valido di tutta l’arte peruginesca.

È inoltre di questi anni la «messa a fuoco di quelle tipiche figure di giovani e di vecchi, e soprattutto dei celebri personaggi femminili, dal viso tondo e pieno, la bocca piccola, lo sguardo trasognato, e l’accurata disposizione di capelli, veli, nastri, che ci riporta alla nota vasariana sul pittore-coiffeur, intento a creare «di sua mano, leggiadre acconciature» per la «bellissima» moglie. Con la loro tipicizzazione le figure peruginesche vanno anche assumendo quell’aria di dignitoso riserbo e quella «compunzione distratta» (Gamba) che, interpretati come espressione di un sentimento religioso di mistica contemplazione, non cessano di stupire quanti non ignorano la manifesta miscredenza del Perugino.

Quali che siano le conclusioni tratte, o da trarre, da tale vieta questione. che dovrebbe comunque esulare da un esame condotto nell’ambito del giudizio estetico, esse non possono che deporre a favore del talento artistico del pittore; il quale, se fu (uomo di assai poca religione) (Vasari), fu tuttavia uno dei più abili e fecondi pittori di soggetti sacri di ogni tempo, cui ricorsero, quasi gara (per la fede che avevano in Pietro) (Vasari), monaci, prelati e pontefici. Il Berenson, dal canto suo, ha creduto di scoprire all’origine di tale (emozione religiosa) quel (sentimento di unione con l’universo) che genera l’armonioso rapporto stabilito tra figura e spazio. Pur ampio margine alle interpretazioni che un’opera sempre ed ovunque suggerire all acuto osservato forse meno arbitrario e più logico ritenere che imposizioni spaziali nell’intenzione dell’autore, dovessero innanzi tutto rispondere ad esigenze d’ordine estetico. Che poi una forma di astrazione artistica venga in un punto a coincidere con un’idea di trascendenza religiosa è più che altro un suggestivo frutto del caso. Di una totale astrazione dalla realtà oggettiva partecipano d’altronde gli stessi personaggi perugineschi, che quasi sempre isolati e privi di qualsiasi legame psicologico, servirono come modelli indipendenti da inserire in questo o quel contesto, secondo piacque all’artista. Tale rapporto passivo tra figure, architettura e paesaggio è alla base di tutte le combinazioni compositive studiate dal Perugino e ripetute con minime varianti in un cospicuo gruppo di opere.

 


Madonna con Bambino,
 Washington

Gonfalone della Giustizia,
Perugia


Lo schema inaugurato con il Polittico Albani, a grandi arcate impostate su pilastri lisci e disadorni, tagliati alla sommità da cornici fortemente aggettanti, fornisce ad esempio l’inquadratura prospettica ad una serie di dipinti eseguiti intorno al 1493, (Madonna in trono e santi degli Uffizi e di S. Agostino a Cremona, Visione di San Bernardo della Alte Pinakothek di Monaco, Pietà degli Uffizi), in cui è ancor più manifesta la monotona ripetizione di caratteri e motivi relativi al panneggio e all’atteggiamento delle figure, al facile equilibrio compositivo, risolto con l’inclinazione contrapposta delle teste.

 

Tale pigra maniera scompare, o si attenua sensibilmente, nell'opere degli ultimi anni del secolo (Compianto sul Cristo morto degli Uffizi, Pala dei Decemviri della Vaticana, il Polittico di S. Pietro diviso tra i musei di Perugia, Lione, Rouen e Vaticano, la crocifissione murale di S. Maria Maddalena dei Pazzi a Firenze, l’Assunzione di Vallombrosa agli Uffizi, il Polittico di Fano, il Polittico di Pavia, e gli affreschi del Collegio del Cambio a Perugia), ove si avverte quello che è stato definito un « ringiovanimento » dell’arte del Perugino. Determinato, secondo alcuni, dal contatto con il giovane allievo Raffaello, secondo altri, dalla definitiva adozione della tecnica olearia, tale «ringiovanimento» va interpretato come elevazione del livello qualitativo, quale appariva nelle opere giovanili del maestro, non certo come ripresa di quelle forme, che sembra piuttosto trattarsi di una evoluzione matura, di un più esperto e felice impiego del patrimonio formale e tecnico ormai acquisito.

Tra i caratteri distintivi di tale momento dell’arte peruginesca, maggior cura nel disegno e maggior vivacità e accordo nelle tinte, è stato incluso (Longhi) anche quello di una variazione dai consueti schemi compositivi, ottenuta con la presentazione delle figure schierate in primo piano, anziché dislocate in profondità. Ancora una ricerca spaziale quindi, che ci testimonia una volta di più la presenza viva del problema nel pittore ormai cinquantenne, e che taluno (Camesasca) riferirebbe alla suggestione dei rilievi robbiani, ma che sembra più semplice e plausibile interpretare come un ritorno alla prima esperienza romana (Consegna delle Chiavi), comprovato dalla riapparizione in alcuni dipinti (Agonia nell' orto della galleria Pitti, e, più tardi, Epifania di Città della Pieve), delle svelte figurette sul paesaggio di fondo.

Tale nuovo partito non diviene tuttavia regola costante, che anzi, già nella Natività degli stessi affreschi del Cambio si nota un’ulteriore complicazione con i personaggi degradanti su cinque differenti piani, schema che diverrà canonico per analoghi soggetti del pittore. Circa il colore, si sa che esso costituì uno dei maggiori meriti dell’arte del Perugino, e che nessuno ha mai potuto contraddire la netta affermazione del Vasari che «certamente i colori furono dalla intelligenza di Pietro conosciuti». Tale merito tuttavia, anche in questo preciso periodo, non va tutto, come si vorrebbe, alla tecnica olearia. All’opinione dell’anonimo corrispondente del Duca di Milano (lettera del 1485), che nomina il Perugino come «maestro singulare, et maxime in fresco», e a quella di un acuto critico di tre secoli posteriore, il Lanzi, che lo trova «più fecondo di idee, e secondo il parer di alcuni anche più morbido e più accordato... nei freschi», fanno fede i dipinti del Collegio del Cambio, che sono tra le ultime degne testimonianze dell’arte di questo dotato ingegno. La vicenda artistica del Perugino si chiude infatti in questi anni, che nei successivi, la consumata esperienza non riuscirà più a supplire al progressivo inaridimento della sua vena creativa. Se l’arte sua va estinguendosi, la sua «maniera» ha tuttavia ancora credito e il nome suo risonanza. Egli accetta ancora numerose e importanti commissioni (come la decorazione della volta della stanza vaticana (1507-8) che sarà poi detta dell’incendio dall’affresco del suo geniale allievo), ma si avvale sempre più dell’opera di collaboratori. In questo periodo si assiste infatti allo sforzo di mimesi praticato dai suoi allievi, al cui eccezionale numero (il Vasari ne cita quindici), tuttavia, non fu pari il valore, che, ad esclusione di Raffaello, «nessuno di quelli paragonò mai la diligenza di Pietro, né la grazia che ebbe nel colorire, la quale tanto piacque al suo tempo, che vennero di Francia, di Spagna, d’Al magna e d’altre province per impararla » (Vasari).

Ormai il Perugino aveva fatto il «suo tempo», ed il restare tenacemente ancorato alla propria «maniera», ed ancor più alla propria fama, finì con l’urtare contro la rapida evoluzione del gusto della società del tempo. È incerto se risponda a verità l’accusa di «goffo nell’arte» lanciatagli da Michelangelo (Vasari), ma è più che certo che tale dovette essere in sostanza l’opinione del suo ultimo pubblico. Le flagranti ripetizioni delle sue più riuscite figure, la loro noiosa onnipresenza e polivalenza, non tardarono infatti a suscitare malcontento negli stessi committenti. Alla difesa tentata da alcuni critici con l’affermare «che le cose veramente belle si rileggono volentieri in più luoghi» (Lanzi) o che il concetto di raro è più pertinente il commercio antiquario che non la storia dell’arte, o che la singolarità di un dipinto soddisfa maggiormente la vana gloria del possessore che non il senso estetico di chi l’osserva, si può opporre che non fu nel principio, ma nel modo il difetto del Perugino, quando cominciò ad eseguire o a far eseguire su eccellenti originali, copie sciatte e scadenti. E che la questione fosse ormai passata dall’etica artistica a quella professionale lo dimostrano le parole stesse del maestro, che sembrano difendere piuttosto i diritti di mercato, che non quelli dell’arte sua: « ... ho messo in opera le figure altre volte lodate da voi e che vi sono infinitamente piaciute » (Vasari).

Nelle ultime opere, sparse per il «contado» Perugino, da Foligno a Corciano, a Montefalco, a Bettona, a Città di Castello, a Spello, a Trevi, a Fontignano e altrove, non resta che l’ombra di quel sicuro disegno e di quel «freschissimo colorito» che avevano fatto di lui uno dei primi pittori di fama veramente internazionale. Né riteniamo fargli torto, negando valore alla sua produzione tarda, qualora sia implicito che egli cose altissime e bellissime fece in più felice e feconda età.

 

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