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Antonio Canova Possagno, Treviso 1757 - Venezia 1822 Antonio Canova nasce il 1 ° novembre 1757 a Possagno, paese allora soggetto alla Repubblica veneta.
Se nel Falier Canova incontrò il primo mecenate, in Giuseppe Bernardi trovò il primo vero maestro. Questi aveva ormai settantaquattro anni, quando nell'autunno del 1768, finiti i lavori per la villa Falier, tornò a Venezia, portando con sè l'undicenne Antonio. Tipico rappresentante del rococò, trasfondeva nelle sue sculture una sottile sensualità e torniva le forme fino ad un'estrema levigatezza, caratteristica questa che trasmise al suo giovane allievo.
Il Canova lavorò nella bottega del Bernardi fino alla morte di lui, avvenuta nel 1773. Il contratto di “garzonado” gli garantiva vitto e alloggio e 50 soldi al giorno e gli consentiva di frequentare alla sera la scuola del nudo nella pubblica Accademia. Dal 1770 potè avere libera mezza giornata, grazie all'aiuto finanziario del nonno Pasino, che a questo scopo aveva venduto un suo podere. Andava così a studiare i calchi in gesso di statue antiche nella Galleria Farsetti, ch'era un centro di diffusione del gusto classicista nell'ambiente veneziano. Questo primo approccio, seppur mediato, alla scultura classica fu fondamentale per la formazione del Canova, che nel 1775 si mise in luce vincendo un concorso con la copia dei Lottatori, il cui gesso stava proprio nella Galleria Farsetti. Le sue prime opere veneziane furono i due Canestri di fiori e frutta, scolpiti per commissione del Falier e acquistati dall'abate Farsetti per il suo palazzo. Collocati sul primo ripiano dello scalone, vennero logorati col tempo. Trasferiti nel 1852 al Museo Correr, furono restaurati nell'anno successivo da Pietro Zandomeneghi. Nel Museo Correr sono oggi anche le statue a grandezza naturale di Euridice e Orfeo, che il Falier commissionò nel 1773 per il giardino della sua villa ai Pradazzi. Il gruppo, soprattutto l'Orfeo, rivela chiaramente l'originalità dello scultore, che non si accontenta di fare un'opera descrittiva ma vuole esprimere il dramma dei personaggi raffigurati. Esposte nel 1776 in piazza San Marco, alla fiera annuale dell'arte veneziana nella “Festa della Sensa”, le due statue furono ammiratissime e segnarono l'inizio della folgorante carriera canoviana. Una replica marmorea dell'Orfeo del Correr, commissionata da M.A. Grimani nel 1777, è ora all'Ermitage di San Pietroburgo. Sempre nel 1776 il Canova eseguì per il senatore Angelo Querini il busto in terracotta del doge Paolo Venier (ora al Museo Civico di Padova). Nel volto del doge, illuminato da un arguto sorriso, lo scultore dimostra d'aver assimilato la penetrante ritrattistica di Alessandro Longhi. La famiglia Renier, come quella Falier, era una delle più colte e illuminate del patriziato veneto. Nella festa che si tenne in casa Renier per l'elezione del doge, il Canova venne presentato a Gerolamo Zulian, che stava per andare come ambasciatore a Roma. Conversando con lui, lo scultore affermò che per un artista non era necessario lo studio delle opere antiche ma gli bastava ispirarsi alla natura. Questa sua affermazione gli procurò poi la diffidenza dei circoli artistici e intellettuali romani, che sostenevano invece l'imitazione degli antichi. Nel 1777 il Canova fu incaricato dal procuratore Pietro Vettor Pisani di eseguire a grandezza naturale il gruppo in marmo del Dedalo e Icaro per il suo palazzo (oggi è al Museo Correr). Con quest'opera, terminata nel 1779 ed esposta con vivissimo successo alla “Fiera della Sensa”, Canova ottenne il decisivo riconoscimento dell'ambiente artistico veneziano. Guadagnò pure la cospicua somma netta di cento zecchini, con cui poté recarsi a Roma, per quel soggiorno di studio che allora sembrava necessario alla buona formazione d'un giovane artista. Fu incoraggiato a questo viaggio anche dallo scultore Antonio D'Este, ch'era stato suo condiscepolo, più anziano di tre anni, nella bottega del Bernardi e che per primo si era trasferito nell' Urbe. Legato al Canova da profonda amicizia, il D'Este divenne suo prezioso consigliere in molte questioni, come nei contratti e nell'acquisto dei marmi, e fu da lui nominato proprio esecutore testamentario. Prima di partire, il Canova ebbe la soddisfazione d'essere accolto nell'Accademia veneziana, alla quale, com'era consuetudine, donò una sua opera: l'Apollo in terracotta (oggi nella Galleria di quell' Accademia) d'evidente influsso berniniano. Gli fu anche affidato l'incarico d'insegnamento per l'anno successivo, che però il viaggio gli impedì d'esercitare.
Giunto a Roma il 4 novembre 1779, Canova ritrovò Gerolamo Zulian, l'ambasciatore veneto presso la Santa Sede, che divenne suo amico e mecenate. Ne aveva bisogno, perché gli artisti e i critici romani dimostravano molta freddezza nei suoi confronti, ritenendolo uno spregiatore dell'antico. Canova in realtà non disprezzava le opere antiche ma la loro meccanica imitazione, voleva inventare non copiare.
In questo gruppo statuario, apprezzatissimo da artisti e critici, diede prova d'aver assimilato gli stimoli dell'ambiente romano e le idee del neoclassicismo. Con perfetto dominio dei mezzi tecnici e formali, seppe infondere nel giovane eroe seduto sul mostro abbattuto "la nobile semplicità e la quieta grandezza", che Winckelmann aveva indicato come le qualità supreme dell'arte greca. Un giorno il Quatremère de Quincy, fine intenditore, si recò nello studio del Canova a Palazzo Venezia per vedere il Teseo e ne rimase affascinato. Tra il teorico e lo scultore nacque una profonda amicizia e si stabilì un'intesa culturale destinata a durare per tutta la vita. Per il Quatremère Canova incarnava il tipo ideale dell'artista, completo nei suoi attributi, appassionato dell'archeologia e dell'estetica, tutto dedito all'arte, impassibile di fronte alle rivoluzioni politiche, disinteressato per la ricchezza, ritenuta solo un mezzo per favorire l'attività creativa. Al Quatremère il Canova sottoponeva i progetti delle proprie opere e da lui aspettava, con umiltà ma senza rinunciare alla propria autonomia artistica, un consiglio o un giudizio. A lui molto dovette lo scultore del metodo dell' "esecuzione sublime" adottato nel procedere dal bozzetto al marmo finito. Il successo del Teseo accrebbe la sua fama anche oltralpe e gli procurò importanti commissioni. Nel 1783 venne incaricato del monumento sepolcrale per il papa Clemente XIV da erigersi nella basilica romana dei S.S Apostoli. Per questo incarico si era generosamente interessato, contro la rivalità degli artisti romani, l'incisore bassanese Giovanni Volpato, con la cui figlia Domenica il Canova si era fidanzato ma che lasciò quando venne a sapere che si era innamorata dell'incisore polacco Raffaello Morghen, allievo dello stesso Volpato. La delusione sentimentale lo scoraggiò dall'intraprendere altre relazioni amorose e lo spinse a concentrarsi ancora di più nel suo lavoro. Fortissimo fu l'impegno per la nuova opera. Lo scultore stesso si recò a Carrara per scegliere accuratamente il marmo ed eseguì non solo i bozzetti ma anche il modello in creta a grandezza naturale. Per sostenere la creta di questo modello, si servì di uno scheletro portante formato da un'asta metallica, alta quanto la statua da eseguire e congiunta a più piccole aste fornite alle estremità di crocette in legno. Questo sistema, che gli permetteva di verificare l'effetto dell'opera prima di tradurla nel marmo, venne da lui costantemente usato anche per le successive creazioni. Dal modello in creta lo scultore passava a quello in gesso, sul quale poi fissava i punti di repere, che servivano ai lavoranti per la giusta sbozzatura del marmo. Alla statua così sbozzata lo scultore dava l'importantissima "ultima mano" a lume di candela. Infine il marmo, levigato a lungo da un lavorante, assumeva quella suprema finitezza formale, che ancor oggi suscita tanta ammirazione. Il monumento a Clemente XIV era stato eseguito, come si è detto, nello studio in via San Giacomo, che nel 1803 fu ampliato per poter corrispondere alle accresciute esigenze. Nel febbraio del 1805 un'inondazione del Tevere causò gravi danni allo studio e in quel frangente lo stesso scultore corse grave pericolo. In quest'ambiente, dove lavorò per tutto il resto della sua vita, Canova conservava i bozzetti in terracotta e i gessi delle opere già eseguite (ora sono custoditi in massima parte nella Gipsoteca di Possagno), sia per trarne spunti di nuove invenzioni sia per mostrarli ai clienti in vista di eventuali ordinazioni. Papi e sovrani, nobili e ricchi borghesi, artisti e intellettuali italiani e stranieri visitarono quello studio, di cui il pittore Francesco Hayez ci ha lasciato una precisa e vivace descrizione: "Lo studio si componeva di molti locali, tutti pieni di modelli e di statue, e qui era permesso a tutti l'entrata. Il Canova aveva una camera appartata, chiusa ai visitatori, nella quale non entravano che coloro che avessero ottenuto uno speciale permesso. Egli indossava una specie di veste da camera, portava sulla testa un berretto di carta; teneva sempre in mano il martello e lo scalpello anche quando riceveva le visite; parlava lavorando, e di tratto interrompeva il lavoro, rivolgendosi alle persone con cui discorreva." Nella rigorosa forma neoclassica l'immagine della morte perde la drammaticità barocca e attinge una nobile calma elegiaca. Si racconta che, durante la spettacolare cerimonia con cui nella notte del giovedì santo del 1792 Pio VI inaugurò il monumento in San Pietro, il Canova si mescolò alla folla travestito da frate mendicante per poter più liberamente ascoltare i commenti. Alle opere di soggetto religioso egli alternava nella sua produzione quelle di soggetto profano, come Amore e Psiche giacenti (ora al Louvre) che ebbe tanti ferventi ammiratori ma anche accaniti detrattori.
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