Pur costituendo un mero esercizio di stile, che non avrebbe potuto distogliere Beardsley dal suo nascente interesse nei confronti dei preraffaelliti, questa sua prima incursione nel Giapponismo diede la misura della propensione che egli aveva per l’arte di derivazione orientale. Tra i diversi influssi che parteciparono allo sviluppo stilistico del giovane Beardsley fu altrettanto fondamentale l’apporto dato dai
disegni di Mantegna, visti all’Hampton Court Palace. L’insegnamento del grande maestro italiano del XV secolo, le cui immagini ispirate all’arte antica erano cariche di potenza drammatica, ottenuta mediante l’accentuazione degli effetti plastici, si rese evidente nel disegno The Litany of Mary Magdalen, che Beardsley realizzò nel 1891.
Le pose dei personaggi, e soprattutto i ricchi drappeggi delle loro vesti, non lasciano dubbi circa il debito del giovane artista nei confronti di Mantegna. Ma i volti delle figure rappresentate in questo disegno, in cui peraltro compare la prima di una lunga serie di figure grottesche che faranno parte del ricco repertorio beardsleyiano, rivelano il più marcato influsso di un altro maestro, contemporaneo di Beardsley e anch’egli inglese. Si tratta di Sir Edward Burne-Jones, pittore che amava ritrarre figure femminili angelicate ma al contempo ambigue, inquiete, rifacendosi a sua volta allo stile di Dante Gabriel Rossetti. L’incontro con Burne-Jones avvenne il 12 luglio 1891. Era una domenica mattina. Aubrey e Mabel, desiderosi di incontrare il grande maestro e convinti del fatto che quel giorno il suo studio fosse aperto al pubblico, si recarono a piedi a West Kensington per poi scoprire che l’artista non riceveva più nel suo studio da diversi anni. Aubrey aveva portato con se un album con i suoi disegni migliori da sottoporre al giudizio del maestro, ed era molto deluso all’idea di non poterlo incontrare. Nel frattempo Burne-Jones fu avvertito della visita e decise di ricevere i due ammiratori. Li raggiunse personalmente, mentre essi si allontanavano dalla sua casa, e li pregò di venire a vedere i suoi dipinti. Notando la cartella che Aubrey teneva sotto il braccio, il maestro gli chiese se anch’egli fosse un artista, e il ragazzo poté finalmente mostrare le proprie creazioni e ottenere un parere autorevole. Burne-Jones, che era un critico notoriamente severo e che per questo motivo elargiva di rado la sua approvazione, fu positivamente colpito dai lavori di Aubrey, anche se non ebbe la lungimiranza di cogliere le reali aspirazioni del giovane: lo incoraggiò, riconoscendo che egli possedeva un dono che gli avrebbe permesso, un giorno, di “dipingere quadri meravigliosi”. Non poté immaginare che quei disegni fossero le opere finite di un aspirante grafico. Diede semplicemente per scontato che si trattasse di schizzi preparatori per dei futuri dipinti a olio. Anche se Beardsley non avrebbe mai dipinto in vita sua, attratto com’era dalle doti di immediatezza dell’arte grafica, il suo avvenire sarebbe stato comunque quello di un grande artista. Era necessario che egli iniziasse quanto prima a studiare presso una scuola d’arte per imparare ciò che avrebbe fatto di lui un artista completo, ma lo studio non avrebbe dovuto impedirgli di mantenere la sua occupazione in ufficio. Era impensabile che egli riuscisse a mantenersi coi suoi disegni, e i genitori non potevano approvare che abbandonasse il lavoro per dedicarsi alla precaria attività artistica. Si iscrisse alla Westminster School of Art, ma seguì raramente le due ore quotidiane di corso serale. La sua formazione fu quindi, a tutti gli effetti, da autodidatta.
L’esempio di Burne-Jones guidava i progressi artistici di Beardsley, che continuava a trarre ispirazione dallo stile lineare di Mantegna e che non poteva certo scordare la grande impressione suscitata dalla “stanza dei pavoni” di Whistler. Le molte fonti da cui Beardsley traeva ispirazione confluivano nelle sue opere alternandosi di volta in volta, senza mai annullarsi o fondersi l’una nell’altra per dare origine a uno stile inedito. L’influsso più evidente era quello derivato dal Medioevalismo di Burne-Jones e di William Morris, ma l’innegabile importanza rivestita dalla linea rimandava allo stile di Mantegna o di Botticelli, se non già al linearismo di derivazione orientale di James Whistler. Era stata proprio la scoperta delle opere di Whistler a permettere a Beardsley di conoscere e apprezzare le caratteristiche di semplicità, linearità e asimmetria che costituiscono gli elementi dello stile giapponese. L’uso della linea avrebbe fatto la differenza, di questo Beardsley era ormai consapevole. Il suo interesse si spostò sempre più verso quelle civiltà che ne avevano sviluppato un uso magistrale. Lo studio accurato delle pitture sui vasi greci, delle pitture murali dell’antico Egitto e delle moderne stampe giapponesi gli fornì una base solida su cui poter costruire un’arte grafica personale e vincente.
Beardsley ebbe modo di constatare che il Giapponismo di Whistler differiva sostanzialmente dal Giapponismo di quegli artisti che, non avendo assimilato l’essenza dello stile nipponico, dipingevano opere che ne erano palesemente prive. Questo lasciava intendere che incorporare gli elementi dello stile giapponese nello stile personale, dando luogo a modalità di espressione innovative ma coerenti con l’identità dell’artista, non era sempre facilmente realizzabile. Probabilmente non era nemmeno un procedimento a cui ogni artista fosse realmente interessato. Il divario che separa nettamente una “giapponeseria” da un’opera appartenente al vero e proprio fenomeno
del Giapponismo consiste nella sostanziale superficialità caratterizzante la prima e nella comprensione approfondita dell’arte
giapponese caratterizzante il secondo.
Il 1892 segnò una svolta nella carriera di Beardsley. Un nuovo peggioramento della malattia lo costrinse ad abbandonare il lavoro e lo studio nei primi mesi dell’anno. Quando si ristabilì, il suo stile iniziò a mostrare i segni inequivocabili di un profondo, radicale mutamento: l’introduzione di elementi giapponesi determinava un parziale distacco dell’artista dalla tradizione preraffaellita.
In marzo si tenne una retrospettiva delle opere di Whistler a Waterloo Place, e Beardsley colse l’occasione per approfondire le sue conoscenze dei principi estetici giapponesi di cui erano permeati i lavori dell’eccentrico maestro.
La sua formazione, basata soprattutto sull’osservazione delle opere dei grandi artisti giapponesi del periodo Edo, fu facilitata dalla notevole disponibilità di materiale che circolava sull’argomento. Il Giapponismo era già in voga da tre decenni sia in Francia che in Inghilterra: un buon volume dedicato alle stampe giapponesi era facilmente reperibile nelle librerie di Londra o di Parigi. Inoltre, musei di primaria importanza come il British Museum e il South Kensington Museum ospitavano collezioni orientali permanenti che chiunque poteva visitare. Come già sottolineato in precedenza, la visita di tali musei era una delle attività a cui Aubrey e sua sorella Mabel si dedicavano più frequentemente. A Beardsley, che frequentava le librerie, le collezioni private e gli ambienti artistici non poterono certamente sfuggire alcune pubblicazioni fondamentali dedicate all’arte giapponese, come ad esempio l’edizione britannica del Japon artistique di Siegfried Bing, edita dal 1888 al 1891. Il giovane artista William Rothenstein raccontò di come avesse dovuto, suo malgrado, disfarsi della sua imbarazzante collezione di stampe erotiche giapponesi acquistate a Parigi e apparentemente realizzate da Utamaro, facendone dono al suo amico Aubrey. Quando tornò a trovarlo, Rothenstein scoprì che Beardsley, entusiasta del dono ricevuto, aveva appeso le stampe in bella mostra sulle pareti del soggiorno. Questo episodio evidenzia la sua attitudine a opporsi al moralismo imperante nella notoriamente ipocrita, nonché xenofoba, società vittoriana, affinché esso non potesse mai andare a frapporsi tra lui e il suo amore per l’arte, impedendogli di apprezzarne la bellezza in ogni sua forma.
Nel maggio del 1892 Beardsley approfittò di tre settimane di ferie per recarsi a Parigi, dove la moda per l’estremo Oriente dilagava ancor più che nella capitale del Regno Unito. Qui avvenne l’incontro con Pierre Puvis de Chavannes, presidente del Salon des Beaux-Arts, il quale esaminò alcune delle strane opere in stile giapponese che Beardsley aveva portato con sé, ammirandole e incoraggiando colui che ne era l’autore. L’anno seguente, in una lettera indirizzata al vecchio compagno di scuola Scotson-Clark, Beardsley avrebbe scritto: … Last summer26I struck for myself an entirely new method of drawing and composition, something suggestive of Japan, but not really japonesque. The subjects were quite mad and a littleindecent. Strange hermaphroditic cretures wandering about in Pierrot costumes or modern dress; quite a new world of my own creation. I took them over to Paris with me and got great encouragement from Puvis de Chavannes, who introduced me to a brother painter as un jeune artiste anglais qui a fait des choses étonnantes.
Pur continuando a disegnare alla maniera dei preraffaelliti, il nuovo stile d’ispirazione giapponese era ormai diventato il suo interesse dominante. Beardsley era ansioso di mettere da parte l’ormai acquisito stile medievale per potersi dedicare esclusivamente a rifinire la tecnica di derivazione nipponica, dal cui sviluppo avrebbe potuto trarre origine un nuovo, originalissimo modo di fare arte. Una volta portato a termine il processo di assimilazione dei principi del design giapponese, il suo stile si sarebbe potuto definitivamente scostare da quello medievale.
La grande occasione che avrebbe permesso a Beardsley di affermarsi come artista di professione avvenne in quello stesso anno, il 1892.
Beardsley era assiduo frequentatore della libreria Jones & Evans in Queen Street il cui proprietario, Frederick Evans, aveva stretti contatti con molti editori. Evans era amico dell’editore J. M. Dent, proprietario della Everyman Library, il quale era intenzionato a iniziare la pubblicazione di opere classiche sull’esempio della Kelmscott Press di William Morris. A differenza di quest’ultimo, i cui libri venivano illustrati esclusivamente da grandi artisti come Burne-Jones, e poi stampati mediante la laboriosa e costosissima tecnica dell’incisione su legno, Dent voleva pubblicare edizioni di buona qualità, vale a dire decorate in modo altrettanto elegante, il cui prezzo fosse però accessibile a un pubblico più vasto. L’abbattimento dei costi di produzione sarebbe stato reso possibile in primo luogo dalla scelta degli artisti a cui commissionare la realizzazione delle illustrazioni, e non da ultimo dalla scelta dell’utilizzo di procedimenti di stampa nettamente più rapidi ed economici, come quello della foto riproduzione. La prima opera che Dent aveva in mente di pubblicare era Morte Darthur, di Sir Thomas Malory, le cui illustrazioni avrebbero dovuto imitare lo stile medievale di Morris e di Burne-Jones. Quando sentì che Dent era in cerca di un artista che si facesse carico di realizzare i molti disegni necessari a illustrare l’opera di Malory, Evans pensò immediatamente di suggerire il suo amico Beardsley. I disegni di Aubrey che Evans possedeva impressionarono positivamente l’editore, che decise di voler incontrare l’artista che li aveva realizzati. La giovanissima età di Aubrey e il suo aspetto inconsueto destarono la perplessità di Dent che, ciò nonostante, ebbe fiducia nelle sue capacità. Dovendo dar prova all’editore di come avrebbe saputo illustrare Morte Darthur, Beardsley produsse un campione intitolato The Achieving of the Sangreal, che rappresentava un momento topico dell’opera. Il disegno era riccamente particolareggiato e ombreggiato, del tutto inadatto alla riproduzione fotomeccanica, ma l’evidente affinità stilistica con Burne-Jones e Rossetti convinse l’editore a commissionargli l’incarico di illustrare l’opera. Questo primo disegno illustrativo della Morte Darthur, realizzato alla maniera dei grandi maestri medievalisti con l’evidente scopo di compiacere alle aspettative dell’editore, portava già alcuni segni distintivi del nuovo stile che Beardsley stava elaborando, segni che si sarebbero manifestati in modo più palese nelle successive illustrazioni dell’opera.
L’intrusione dell’influsso giapponese in The Achieving of the Sangreal si scorge nella resa degli strani fiori orientaleggianti che appaiono in primo piano, e nel misterioso “logo” costituito da tre linee verticali che richiama alla mente la firma calligrafica dei maestri giapponesi dell’ukiyoe. Questo marchio distintivo difficilmente interpretabile, che un’unica volta verrà rappresentato in modo esplicito come tre candele, costituirà fino al 1894 uno dei tratti riconducibili all’arte nipponica facenti parte dello stile di Beardsley. La tecnica utilizzata nelle successive illustrazioni di Morte Darthur rivelò che Beardsley si stava progressivamente discostando dallo stile del maestro che, più di chiunque altro, lo aveva incoraggiato e aveva avuto un grande ascendente su di lui. Il maestro in questione, vale a dire Burne-Jones, non poté fare a meno di offendersi nel notare che le figure disegnate da Beardsley, piuttosto che somigliare come di consueto alle sue figure medievali parevano volerne fare una parodia che accentuava i loro tratti più caratteristici. I volti dei cavalieri, inoltre, apparivano ambigui, allusivi, e tutta l’opera era disseminata di personaggi grotteschi che traevano origine dalla bizzarra immaginazione del disegnatore. Man mano che procedeva a illustrare l’opera, Beardsley introduceva elementi sempre nuovi come riferimenti impliciti, dettagli ironici, anacronismi e particolari che non avevano nulla a che vedere con l’opera di Malory. Per quanto riguarda i bordi decorativi, quelli di Beardsley erano più semplici e lineari rispetto a quelli di Morris. Ampie zone di bianco e di nero, sapientemente alternate tra loro alla maniera di Moronobu, delineavano i contorni dei personaggi facendoli spiccare come silhouettes.
La reazione di Morris alla vista del lavoro svolto da Beardsley fu violenta, furibonda: Beardsley aveva osato illustrare un testo caro ai preraffaelliti ricorrendo a un metodo completamente rivoluzionario, estraneo a qualunque altro tipo di approccio illustrativo. Il coesistere di elementi medievali e giapponesi, spesso perfettamente bilanciati tra loro, appariva sconcertante e inammissibile. L’evidente abbandono degli ideali preraffaelliti da parte di Beardsley, che trovò nell’essenzialità dell’arte giapponese ciò che serviva maggiormente al suo scopo, deluse profondamente Burne-Jones: i rapporti di stima e di amicizia che legavano il maestro all’allievo si dissolsero gradatamente. Beardsley non appariva turbato dalle critiche rivolte al suo lavoro. L’originalità del suo nuovo stile, al contrario, lo inorgogliva, ed egli poteva finalmente intravedere un radioso avvenire davanti a se. La commissione per Morte Darthur e il contemporaneo incarico di decorare con decine di piccole immagini bizzarre i Bon-Mots of Sydney Smith and Richard Brinsley Sheridan lo convinsero ad abbandonare definitivamente il lavoro d’impiegato nell’autunno del 1892.
I genitori, inizialmente contrari alla carriera intrapresa dal figlio, dovettero ricredersi quando egli iniziò ad ottenere un certo successo.
A soli venti anni d’età era già diventato un artista a tempo pieno.
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Altre informazioni:
Il suo nome dice poco, ai più – ma basta una sua illustrazione, ché i suoi disegni hanno influenzato l’arte tutta e hanno accompagnato grandi opere altrui (al punto che pochi si ricordano che fu anche scrittore).
Un tocco moderno di china e inchiostro, spesso irriverente, sovente con tematiche erotiche e mitologiche – un rappresentante celebre e scomodo dell’Art Nouveau, con una vita breve e difficile e un senso dell’ironia e dello scandalo che bene rispecchiavano l’estetismo del tempo, pur con dei tratti unici.
Fu lui stesso a dire di sé, con estrema e scarna lucidità: “Ho uno scopo: il grottesco. Se non sono grottesco, non sono niente”.
Brighton nella seconda metà dell’Ottocento era un delizioso centro marino in cui la buona società andava a respirare aria buona, a fare qualche bagno per rimettersi in sesto, a passaggiare chiacchierando nella zona del Palace Pier, un parco di divertimenti e svago che quasi cade in mare.
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E’ qui che nasce, nel 1872 Aubrey Beardsley, che quasi non si riesce a pronunciare – in una famiglia dove il talento pareva essere di casa, così come una certa precarietà economica, che li accompagnò in alcuni periodi (di fatto si trattava di gente che faceva parte della middle e upper class).
Cresciuto ascoltando le lezioni di piano della madre, legatissimo alla sorellina Mabel, che sarebbe poi diventata attrice e con cui ebbe un rapporto ambiguo, Aubrey iniziò ad avere problemi di salute ad appena nove anni: la tubercolosi non le avrebbe mai più abbandonato, lasciandolo per intere stagioni invalido.
Ma anche la carissima mamma fu malata a lungo: questo la obbligò a mandare il figlio da una zia e a separarsene – la scuola non lo appassionava, pur essendo proprio sui giornali lì prodotti che pubblicò i suoi primi lavori (ad esempio, il poema The valiant nel 1885). Contemporaneamente, iniziò le sue dissacranti caricature, le sue prime composizioni, sempre di china, nero e bianco, lussuriose, ingiuriose, cupe ma ipnotiche e decadenti. Il suo sarcasmo, il suo tratto deciso e schietto fecero di lui stesso una sorta di personaggio teatrale: anche nelle fotografie, col suo naso enorme in un corpo emaciato, con la sua frangetta, ha un che di sfacciato e forse ridicolo.
Nel vero, i suoi polmoni deboli e la frustrazione di dover sopravvivere facendo l’impiegato per una compagnia assicurativa, rendevano la sua vita insoddisfatta. Ecco perchè iniziò a frequentare gli artisti dell’epoca, soprattutto quelli dell’ambiente di Oscar Wilde (che definì Beardsley “una faccia come un piatto d'argento e con capelli verdi come l'erba”) e i preraffaelliti, che influenzarono fortemente la sua visione artistica. Partecipò a corsi serali di arte per supplire la mancanza di preparazione e nei primi anni Novanta del secolo ebbe il suo attimo di gloria: gli furono commissionate centinaia di illustrazioni, per riviste note e copertine di libri e fu Aubrey a illustrare la Salomè wildiana quando venne diffusa in Inghilterra.
L’uscita di The Yellow Book, nel 1894, gli diede la reale notorietà: un giornale per giovani artisti dell’estetismo, in cui le parole e i disegni del ragazzo abbondavano. Considerato dall’epoca vittoriana indecente, l’associazione mentale che lo legava a Wilde gli fu fatale: quando il famosissimo Oscar fu portato in tribunale, anche gli amici del “suo stampo” subirono vessazioni – dunque l’illustratore si ritrovo senza posto e riuscì a risistemarsi solo grazie a un editore, Smithers, che si occupava per lo più di pornografia.
Nel suo curriculum, tra molto altro, anche un racconto erotico, Under the hill, disegni per storie su Pierrot e per novelle di Edgar Allan Poe.
Purtroppo la tubercolosi non aveva mai smesso di tormentarlo, ed era andata in crescendo: accanto a lui, sempre la madre, come infermiera, e la sorella – tutto inutile.
Aubrey, dal presente brevissimo e dal futuro promettente, muore ventiseienne e convertito al cattolicesimo, in Francia, nel 1898.
Spunto di riflessione questa attitudine del passato (così fece anche Wilde) di farsi cattolici in punto di morte: un tema coinvolgente, legato alla paura dell’al di là e della percezione di quella precisa religione, in alcune parti del mondo, come salvezza l’arcano e la forza dell’indottrinamento. C’è un che di attualissimo nei suoi disegni: di essenziale, gotico e sensuale (una sensualità nera, inchiostrata, dinamica come doveva essere la forma dell’ Art Nouveau).
Appare, nelle illustrazioni, una tensione palpabile: pare di vedere il movimento, nel foglio tutto riempito, senza colore. I visi sono aguzzi, con espressioni impressionanti, i nudi sono realmente grotteschi, palesi, sconvolgenti per l’epoca.
C’è un senso di tragico, in Aubrey: sa che non vivrà a lungo, e per gran parte del tempo è fermato dal suo malanno.
Come spesso accade in queste situazioni, c’è la necessità di formarsi un’identità propria, profonda e ben visibile, per evitare di divenire semplicemente un “povero ragazzo malaticcio”: una sorta di sublimazione, sostenuta da un incessante bisogno di espressione e liberazione dai propri fantasmi interiori.
Per sorpassare lo stereotipo che si ha di lui come bimbo sempre allettato, ha da esagerare, imporsi, sottolineare.
Fu molto teatrale anche per il periodo, che teatrale lo era, in quegli ambienti.
La tubercolosi è iniziata troppo presto, per non influire sulla formazione della personalità: la percezione è legata a un rapporto difficile col mondo, un mondo oggettuale ostile e precluso.
Divenire caricatura, altro-da-sé (il sé non sano), sfruttando un dono, in risposta anche a un ingresso nel mondo insoddisfacente (la professione impiegatizia, non scelta bensì subita) diventa scappatoia da un destino segnato, una forma di evasione, forse di rimozione.
Grazie a compensazioni a situazioni tragiche abbiamo nella Storia nomi altrimenti perduti, anche se non famosissimi, come quello di Beardsley.
Persino il suo fortissimo ma unicissimo senso della famiglia è ancor oggi misterioso: affezionatissimo alla devota madre e innamorato della sorella Mabel – si dice che abbiano avuto assieme addirittura un figlio.
La famiglia come consolazione, come luogo generoso e non ostile, luogo di cura e sicurezza.
E arte come proiezione di rabbia e dolore e una consapevolezza non desiderata.
E non solo: sarebbe riduttivo fare di Beardsley il risultato di una reazione alla tragedia: interessante è scoprire l’ennesimo “genio” in un nucleo famigliare che ne ha già molti – dunque quale è mai il rapporto fra doti artistiche ed ereditarietà genetica e influenza dell’ambiente?
Malgrado i valori vittoriani fossero bene in auge e malgrado i problemi personali (o forse proprio per quelli, anche), Aubrey mostra una sessualità intensissima, una libido libera, che vuole mostrare, quasi costruire in faccia al prossimo (senza sapere se l’abbia poi davvero vissuta con così tanta... convinzione).
La sessualità è energia, esistere, affermazione e bellezza – ma anche una caricatura, qualcosa di crudele, talvolta ridicolo.
Crea e dissacra i propri stessi lavori, divenendo sfuggente: ha un senso dell’umorismo che è una versione nera e crudele di quella dell’amico Wilde, che fu addolorato di sapere della morte di un “fanciullo venuto meno all’età di un fiore”.
L’egocentrismo da figlio fragile, il conoscere il proprio valore di artista eppure il deriderlo nel momento in cui lo si offre alla piazza, segnano il desiderio di affermazione ma anche di distruzione: io sono guardatemi bene anche se in fondo è tutto quanto poca cosa.
Disegna compulsivamente – non c’è molto tempo.
Il voler essere riconosciuto come modo per sapere d’esserci, d’esserci davvero – d’esserci stato, almeno.
Aubrey Beardsley, considerato lascivo e volgare dai contemporanei, è invece l’esteta fecondo, il nero essenziale per non perdere il messaggio e il senso di un bello esagerato, calcato e ricalcato.
Aubrey è forse un grido magnifico, un’imposizione che non si può ignorare, una rivincita.
Ed è riuscito – bisogna dirglielo – a essere grottesco. Perchè lui era così: o grottesco o nulla.