Sol Lewitt

 

Sol LeWitt
Hartford in Connecticut nel 1928 - New York 23 aprile 2007

Nato a Hartford in Connecticut nel 1928, é uno dei più importanti artisti americani di questo secolo. Studia alla Syracuse University di New York e, nella stessa città, insegna alla Museum of Modern Art School e alla Cooper Union. I suoi esordi artistici avvengono nell'ambito del disegno, a matita o, preferibilmente, ad inchiostro.
LeWitt si è affermato con la sua arte Minimal negli anni Sessanta per reazione al dilagare dell' idea di Jackson Pollock e seguaci.
Maestro minimalista e concettuale, il suo lavoro si sviluppa attraverso strutture mentali e strutture visuali concrete ed è caratterizzato da una costante ricerca che permette all'artista di collocarsi nell'ambito di un continuo rinnovamento rilevando la sua inequivocabile unicità.
Nel suo lungo percorso artistico, egli è riuscito a trovare il giusto compromesso fra qualità percettiva e concettuale, fra la semplicità dell'ordine geometrico e la ricerca di bellezza e creazione intuitiva.

 

Essere Sol LeWitt ovvero la filosofia a misura d’uomo:
Se nelle creazioni di un artista prendono vita contestualmente le anime di Parmenide, Pitagora, Platone ed Euclide, ovvero i padri fondatori del pensiero razionale logico-matematico occidentale, allora non ci sono dubbi: non può che trattarsi che di Sol LeWitt.

 

Eppure, uno dei suoi presupposti era proprio quello di rifuggire dai concettualismi di matrice filosofica: dichiarava infatti di concepire i suoi celebri Location Drawings come satira contro quegli artisti concettuali il cui lavoro rifluisce nella filosofia.  

L’idea come espressione intellettuale, progettazione, elaborazione e costruzione di uno schema essenziale varato sulla base, per varianti, di elementi geometrici reiterati e modulati secondo proporzioni spaziali standardizzate – la formula perfetta di misurazione dello spazio attraverso le figure della geometria piana euclidea bi- e tridimensionale – si rivela allo spettatore mediante la forma. “Nel mio lavoro c’è un doppio fuoco: l’idea e il risultato dell’idea. Non ho mai pensato che se la cosa fosse esistita solo come idea sarebbe stata un’idea completa”. Sicché: forma sostanziale perché veicolo dell’idea. Ovvero forma come mezzo, se il fine è la disposizione: addentrarsi nelle spazio euclideo, ambientarcisi, non senza metterne in crisi le fondamenta. Come? La cosa va da sé, dal momento che il progetto, prevedendo la sua stessa realizzazione, si rende visibile mediante un’esecuzione, pur se impeccabile,  tuttavia umana, e quindi soggetta a margini, anche se impercettibili, di differenziazione: il tocco personale dell’esecutore. È noto, infatti, come spesso, Sol LeWitt, alla stregua della dicotomia idea/forma, amasse differenziare le fasi di progettazione e di esecuzione, riservando le prime a sé, le seconde a dei collaboratori. C’è, in questa volontà programmatica, la consapevolezza della forza dell’idea, ma anche della precarietà dell’hic et nunc in cui essa si concretizza e palesa: donde la delega. Se il fulcro dell’arte risiede nell’ideazione dell’opera, l’esecuzione può e deve essere realizzata da chiunque, grazie a dettagliate istruzioni su “prontuari” a ciò predisposti.

Con Sol LeWitt si erge fino ai massimi estremi quanto aveva propugnato Duchamp: arte come pensiero di un manufatto banale, impersonale, uniforme, lontanissimo da velleità illusorie di auto-costituirsi come unicum.

 

Ma LeWitt va anche oltre, spingendosi fino alla pratica della transitorietà dell’opera: i noti Wall Drawings, ad esempio, realizzati  a partire dagli anni ’70, nascevano già col presupposto che sarebbero stati, a fine esposizione, abrasi: il muro, quindi, spazio extra-pittorico per eccellenza, con cui LeWitt amava confrontarsi, in quanto architettura reale museale, eludendo supporti e mediazioni di sorta, non avrebbe mai più recato traccia dell’opera, che nasceva e doveva rimanere come tale: un idea progettuale.


Ma i Wall Drawings appartengono già a una fase avanzata del percorso di questo artista straordinariamente prolifico. L’anno della rivoluzione è il 1964: Sol LeWitt inaugura quello che sarà un filone, per l’arte contemporanea, ineludibile: la minimal art. Risale a quell’anno la concezione delle Structures: sculture ambientali costituite di griglie tridimensionali, simili a strutture molecolari, di cubi in successione. Siamo di fronte a una prospettiva assoluta, alla spoliazione della struttura delle cose: lo scheletro del reale.

 

Il cubo sarà il protagonista della produzione di LeWitt: La caratteristica più interessante del cubo è proprio il suo essere relativamente poco interessante. Paragonato a una qualunque altra forma Tridimensionale, il cubo manca di aggressività, non implica movimento ed è il meno emotivo. E' dunque la forma migliore da usare come unica base per ogni funzione più complessa, l'espediente grammaticale da cui far procedere il lavoro.

 

Poiché è standardizzato e universalmente riconosciuto, non richiede alcuna intenzionalità da parte dell'osservatore; è immediatamente chiaro che il cubo rappresenta il cubo, una figura geometrica che è incontestabilmente se stessa. L'uso del cubo evita la necessità di inventare un'altra forma prestandosi esso stesso a nuove invenzioni.

 

Il cubo è il punto di approdo di anni di riflessione: come cambiare le sorti dell’arte, arrivando al cuore, alle fondamenta della creazione, del fare, del pensare, dell’ideare; mettere così a nudo le strutture logico-razionali, minimali, che sottendono la gabbia interpretativa cerebrale dell’essere umano: la griglia concettuale, computazionale, attraverso cui guardiamo il mondo, ci relazioniamo allo spazio-tempo, organizziamo le interrelazioni tra noi  e l’altro, e come interpretiamo i rapporti tra le cose.

 

L’intento di LeWitt è di mostrare i nessi del reale: non i contenuti, non i significati, ma il significante, la sintassi, le giunture, i rapporti. Non è un caso che tra i suoi primi lavori, gli after i grandi maestri del passato, ci siano gli omaggi a Piero della Francesca: l’armonia della resa spaziale delle opere di quest’ultimo, infatti, si regge sulla proporzione varata secondo uno stesso modulo matematico reiterato, duplicato, dimezzato, moltiplicato: sottoposto di volta in volta  a innumerevoli variazioni di calcoli algoritmici.

 

Questo è anche il metodo di LeWitt: procede per accumulazione, serie di figure geometriche standard, linee rette in orizzontale, verticale, diagonale, incrociate o parallele: reinventare il processo artistico significa giocare sulla variabilità  e l’intermittenza delle strutture geometriche che sottendono l’idea di spazio secondo il pensiero occidentale.

 

Regolarità, compattezza, austerità, spersonalizzazione, ripetizione, variazione sono le regole ossessive, i ritmi di una resa oggettuale dell’atto mentale, il quale risulta, pur tuttavia, calato in una spazialità reale nel tempo della fruizione. Veri e propri paradossi quelli con cui LeWitt giostra la propria sperimentazione, portandola agli estremi, senza timore di contraddizioni: lo spazio della razionalità, metodico, sistematico, preciso, nitido, nella sua ossessione per la ripetizione, si fa compulsivo e irrazionale: abissale.

 

È così che dalle Modular Structures LeWitt approda, fondandone i principi, alla conceptual art. È del ’67 il testo Paragraphs in Conceptual art, in cui si esalta l’arte come puro atto mentale di concezione,  in antitesi alla fisicità della forma o l’emotività della sua presenza. Di qui le Serial Structures, i disegni tecnici di scomposizione di quadrilateri, in tutte le possibili variazioni, e a due o tre dimensioni.

 

Si approda, quindi, a quelli che sono considerati un mito nell’arte contemporanea, pari al dripping di Pollock: i Wall Drawings. Minimal e Conceptual si saldano assieme fragorosamente, se mediante pareti bianche e grafite, unici elementi della raffigurazione, si articolano reticoli di segni uguali a se stessi a riempire il muro, su indicazione progettuale. L’operazione di liberazione dall’ego creativo mimetico di ascendenza romantica dell’artista artifex collima nei Location Drawings del ’73, in cui i progetti sono ideati per un determinato spazio, su commissione stessa degli enti museali, mentre le indicazioni dei prontuari si fanno sempre più prolisse e ossessive per disegni scarni ed essenziali: più informazioni fornisci e più diventa folle finché, per costruire una forma semplicissima devi scrivere tre pagine di testo sostiene LeWitt.

Nell’81, gli Isonometric Drawings: il triangolo, quadrato e cerchio, esplorati in tutte le possibili variazioni di resa spaziale  e tridimensionale, attraverso il sistema di rappresentazione assonometrico.

 

L’ars combinatoria è il principio strutturale della produzione artistica di LeWitt: l’infinita gamma di possibilità di rendere quadrati, cubi, cerchi, triangoli, piramidi, linee: l’immaginazione non è nella concezione di forme note a tutti, ma nel pensarle, destrutturarle, combinarle: il processo inventivo segue tautologicamente le stesse modalità di organizzazione dei contenuti comune all’umanità: numero finito di elementi (lettere alfabetiche, parole, etc.) e capacità innovativa di combinarli fra loro in modo inedito.

 

Reticoli, angoli, rette, figure piane e solide: ma anche il colore. Esso assume nelle opere di LeWitt una valenza assoluta: la tonalità deve restituire tutta l’ontologia di cui è capace l’idea della concezione del colore stesso. Anche qui la creatività, intesa in senso tradizionale, si eclissa: si persegue programmaticamente la spersonalizzazione totale del processo artistico.

 

Le fasce di colore dipinte sulla mitica Barolo Chapel per i Ceretto a Brunate furono realizzate direttamente con i pigmenti in pastello, che LeWitt massaggiava con il palmo della mano sulla superficie da dipingere finché il tono, la consistenza, le sfumature e le striature non erano quelle desiderate.

 

Anche in questo risiede il paradosso: artista della modernità assoluta, della riduzione fino all’osso dell’espressione artistica, dell’idea di arte intesa nella sua accezione strettamente concettuale, adottava tecniche, come quella dei pigmenti, antichissime: lavorava come un vecchio maestro medievale realizzatore di affreschi. Questa doppia anima è ciò che allontana le sue opere dall’asetticità comunicativa, pur essendo esse concepite per mostrare, con rigore e metodo, in un procedere incalzante, l’intenzione della messa a nudo della struttura del reale.

Geometria e umano, idea e poesia si fondono sinergicamente nell’opera di LeWitt: momento esemplare nel 1978 quando con Philip Glass e Lucinda Childs mette in scena Dance. Griglia scenografica in bianco e nero ripresa e proiettata: questo lo sfondo su cui si innestavano dal vivo le coreografie dei ballerini. Degna sintesi dell’opera di LeWitt: la danza, metafora del movimento inarrestabile del caos della vita del cosmo, raffigurazione del movimento su variazioni spazio-temporali continue, poggia comunque su una rete cartesiana di linee finite di misurazione concettuale: una definizione universale, paradigmatica, al grado zero, dell’evento.

 

Sol LeWitt, uno dei padri dell'arte concettuale e minimalista, è morto a New York a 78 anni. Le sue sculture e i dipinti geometrici e allegramente colorati hanno uno spazio importante nel pantheon dell'arte contemporanea americana. Schivo e poco amante delle interviste, negli anni Sessanta decise di dedicarsi alle pitture murali, una forma d'arte per definizione transitoria perché tutte le superfici prima o poi sono destinate ad essere riverniciate: ma LeWitt riteneva che l'idea dell'artista fosse più importante dell'opera prodotta. Aveva vissuto negli anni Ottanta in Italia, a Spoleto, prima di tornare ad Hartford, la città del Connecticut dove era nato nel 1928.

 

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