Lempicka Tamara

 

Tamara de Lempicka
1898-1980

 


Tamara Lempicka
negli anni '30

Pittrice, nata il 16 maggio 1898 a Varsavia, morta il 18 marzo 1980 a Cuernavaca, Messico, senza sofferenze durante il sonno e come da lei richiesto la figlia Kizette sparse le sue ceneri sul cratere del vulcano Popocatepet. il suo vero nome Tamara Rosalia Gurwik- Górska, pittrice polacca appartenente alla corrente dell'Art Déco.
Figlia di Malvina Decler, una polacca di origine francese, e di Boris Gurwik- Górski, avvocato di Varsavia.
A seguito della prematura scomparsa del padre, dovuta al divorzio secondo le dichiarazioni dell'artista, o a un suicidio secondo altre ipotesi, Tamara vive con sua madre e i suoi due fratelli (Stanislaw e Adrienne), sostenuta dalla famiglia Decler e vezzeggiata dalla nonna Clementine. Proprio per accompagnare la nonna compie il suo primo viaggio in Italia nel 1907, nel corso del quale, dopo aver visitato le città d'arte italiane ed essersi spostate in Francia, Tamara avrebbe imparato alcuni rudimenti di pittura da un francese di Mentone.

La sua formazione scolastica, seguita dalla nonna Clementine, va posta tra una scuola di Losanna (Villa Claire) in Svizzera e un prestigioso collegio Polacco di Rydzyna.

L'anno successivo, alla morte della nonna, si trasferisce a San Pietroburgo in casa di una zia, dove conobbe l'avvocato Tadeusz Łempicki, che sposò nel 1916, all'interno della cappella dei Cavalieri di Malta a Pietroburgo.
Nel 1911 fece un viaggio con sua nonna in Italia dove percepì la sua immensa passione per l'arte. La pittrice nel 1925 porterà la figlia in Italia per studiare i capolavori della pittura classica, ed incontrò il drammaturgo e dongiovanni più celebre in Europa, Gabriele D'Annunzio.

Visse in ambienti agiati ed in un tenore di vita molto alto, ma durante la rivoluzione d'ottobre la famiglia dovette ricevere forti colpi. Si trasferirono a Parigi dove nacque la figlia Kizette nel 1920. Dopo alcune problematiche i due divorziano nell'anno 1928.


Autoritratto Tamara
sulla Bugatti verde 1925

Ritratto di  Prince Eristoff 1925

Ritratto di  Marquis Sommi 1925

Intorno agli anni Venti incomincia a prendere lezioni di pittura da Andrè Lhote, le sue preferenze erano il comporre opere raffiguranti nature morte e ritratti della sua piccola. Nel 1925 a Parigi ebbe luogo la sua prima mostra Art Decò esponendo al Salon des Tuilleries e al Salon des Femmes Peintres.

E dal 1931-39 molte sue opere vengono esposte in diverse gallerie parigine.
 
 

Nel 1928 la pittrice conosce un grande collezionista di sue opere il barone Raoul Kuffner, con cui ebbe un forte legame sentimentale, seguendolo persino al dì là dell'oceano, Beverly Hills in California.

I due si sposarono nel 1933 pur se la pittrice accettò solo dopo aver avuto consiglio dalla madre, e si trasferirono nel 1943 a New York, dove la pittrice continuò la sua attività artistica.

Nel 1939 viene organizzata una personale nella Galleria  Paul Reinart di Los Angeles.

Nel 1960 lo stile dell' artista si rivolge verso l'arte astratta, cominciando a lavorare con la spatola.

Dopo la morte del barone Kuffner nel 1962, la de Lempicka andò a vivere a Houston in Texas, dove sviluppò una nuova tecnica pittorica consistente nell'utilizzo della spatola al posto del pennello. Le sue nuove opere, vicine all'arte astratta, vennero accolte freddamente dalla critica, tanto che la pittrice giurò di non esporre più i suoi lavori in pubblico.
 


La modella 1925

Nudo seduto 1925

Gruppo di quattro nudi
femminili 1925

Nella galleria Colette Weill ebbe la soddisfazione di vendere i suoi primi quadri e strinse contatti con il Salon des Indèpendants, col Salon d'Automne e col Salon des Moins de Trente Ans.
Nel 1973 La Galerie du Luxembourg a Parigi organizza una retrospettiva delle sue opere.  Il secondo marito mancherà nel 1962 per infarto, facendo cadere la moglie in una forte crisi depressiva.

Nel 1978 si trasferì a Cuevernaca in Messico. Morì nel sonno il 18 marzo 1980. Come da sua volontà, il suo corpo venne cremato.

 

Lempicka: una donna libera....

Ambigua, certo. Libera, indubbiamente. Un mito, sicuramente. Tamara de Lempicka, la bella polacca, la star del periodo tra le due guerre: pochi altri più di lei avrebbero potuto ergersi a simbolo della sua epoca, dell'élite della sua epoca, beninteso, di quell'élite che amava frequentare il Ritz a Parigi o il Grand Hótel a Monte Carlo e che oggi chiameremmo jet-set.

Ancora nel 1978 il «New York Times» la caratterizzava quale «dea dagli occhi d'acciaio dell'era dell'automobile». In realtà il suo più famoso autoritratto, quello intitolato Tamara sulla Bugatti verde, tradisce qualcosa del tipo di rapporto esistente tra Tamara e i congegni meccanici, fossero questi d'acciaio o in carne ed ossa ...

Donna-automobile, automobile-donna ... dove comincia una, dove finisce l'altra? Quale rapporto esiste tra loro? E quale tra loro e i maschi? Difficile dirlo. Porre la questione in questi termini significa anche porre la questione dell'ambiguità di Tamara de Lempicka, un'ambiguità che la sua vita e la sua opera testimoniano diffusamente. E nel farlo occorre anche lasciare un buon margine d'incertezza, che proprio quando uno crede di avere finalmente scoperto il segreto, d'un tratto s'accorge che deve ricominciare tutto daccapo: i dati di partenza erano completamente falsi! Così, per esempio, Tamara non ha mai posseduto una Bugatti verde, bensì una piccola Renault d'un giallo sgargiante. Quel che conta, diceva, è che «io sia abbigliata come la macchina, e la macchina come me».


Nudo disteso 1925 c

Ritratto della  Duchessa
de la Salle 1925

Ritratto di Ira P.

L'immagine che si ha di Tamara è quella della star incontestata di un concorso di moda. La vediamo scendere dall'automobile e presentarsi alla giuria, della quale, magari, fanno parte il grande Gatsby, Hemingway o Coco Chanel, e, con la mano abbandonata sul cofano, posare in un atteggiamento fiero ed elegante. Perfetta armonia tra donna e oggetto, l'una vestita da un grande stilista, l'altra provvista del marchio di fabbrica del suo costruttore e del suo designer.

Di solito i due elementi del quadro sono interscambi abili: la donna, nella nostra società fondata sul possesso, diventa oggetto, e la macchina una proiezione del potere virile che l'ha creata. Il simbolismo che vi è implicito non può sfuggire a nessuno: poggiando la sua mano sul cofano, sotto il quale 400 CV aspettano solo di essere accesi, la donna — esile apparizione in elegante abito anni ’20 – in un certo senso dichiara la sua sottomissione a una forza che, nell'impetuosa della macchina, trova una delle sue espressioni più genuine.

Un'interpretazione di questo genere non tiene conto ovviamente che – almeno nel caso di Tamara – proprio l'automobile è anche lì un simbolo dell'emancipazione femminile. La sua padrona, guarda caso, esercita su di essa un potere assoluto, la può costringere a fare tutto ciò che ella vuole, può spingerla a dare le sue massime prestazioni e può farne la sua docile schiava. Per una donna come Tamara de Lempicka è del tutto naturale manipolare il simbolo della forza, qui rappresentato dal motore, in modo tale da farne solo un mezzo completamente a propria disposizione.


Ritratto del Gran Duca
Gabriel c. 1927

Ritratto di Marjorie
Ferry c. 1927

Kizette on the Balcony 1927

 

La conseguenza è che la nostra eroina conduce un rapporto per lo meno sospetto tanto con l'automobile, quanto con la donna e con l'uomo, un atteggiamento non sempre libero da un certo smarrimento percettibile dietro la facciata apparentemente impeccabile.

Ma gli altri –si chiede lei –, indipendentemente dal loro sesso, dal loro genere, sono alleati o rivali? Perché non è possibile passare dal femminile al maschile, a seconda che una donna sia complice o autista, amante o maîtresse, secondo il proprio grado di femminilità ... o di mascolinità? In fin dei conti ogni essere umano, donna o uomo, è una sottile mescolanza dei due.

La vita e l'opera di Tamara de Lempicka sono profondamente segnate da questa sottile mescolanza. Ne sono anche il riflesso, come uno specchio deformante. Non è un caso che il suo «autoritratto» sia «con automobile»: quest'ultima funge qui da meccanismo ammirato ovvero da equivalente dell'amore, capace, nella sua duplicità, di offrire all'anima di un mortale una salutare alternanza.

Con questa ambiguità a metà strada tra formula matematica e formula magica, Tamara gioca fino all'estremo. Attenzione, però: proprio come altre eroine famose – dalla Hadaly del romanzo «L’Eve future» di Villiers de L'Isle-Adam alla Coppella di E.T.A. Hoffmann a quel meraviglioso automa che è la «Francine» di Descartes alle «macchine celibi» dei surrealisti – anche Tamara è capace di strangolare la rivale o di annientare l'eroe con lo stesso supplizio subito da Prometeo. Non si può sottrarre impunemente agli dei il fuoco della conoscenza e della scienza solo per alitare un'anima in voluttuosi folletti, in quegli inquietanti signori che uno ama e dipinge. Compiacente maîtresse o subdola vipera, docile animaletto o belva sanguinaria, Tamara – proprio come la sua automobile a due posti – può condurre i suoi amanti e le sue amanti, la sua creatura, i suoi padroni e le sue padrone verso il piacere, verso la libertà, verso l'oblio, ma anche contro un albero, verso i tormenti dell'inferno ...


Andromeda 1927-28

La piena estate 1928

Primavera 1928

Ritratto di uomo incompiuto
Tadeusz de Lempicki, 1928

Niente di strano, così, che altre donne affascinate dalla simbiosi esistente tra autista e automobile le dichiarino: «Lei appare così stupenda nella sua automobile, che io vorrei tanto fare la Sua conoscenza.»
Così avvenne il suo primo incontro con la direttrice della rivista tedesca di moda «Die Dame» che le ordinò l'Autoritratto per la copertina del suo giornale. Il risultato fu che il dipinto divenne d'un tratto famoso e celebrato quale ritratto della donna moderna. Col tempo sarebbe stato riconosciuto anche quale perfetto ritratto del suo tempo.

Da quel momento la rappresentazione dell'artista sarebbe stata identificata con quella della meccanica. A Hollywood il quadro fu utilizzato per il manifesto dell'opera teatrale: «Tamara: A Living Movie». «Das Magazin» paragonò la Lempicka a una bella Brunilde: lei e la sua automobile personificavano il duplice aspetto della donna superiore e allo stesso tempo voluttuosa. Ancora nel 1974 «Auto-Journal» avrebbe celebrato l'autoritratto Tamara sulla Buoni verde quale immagine genuina della donna indipendente, della donna che sa imporsi. «Porta guanti e casco di pelle. È inaccessibile: una bellezza fredda e irritante dietro la quale si intuisce un essere fantastico — questa donna è libera!»

«Sic transit gloria ...» annota Giancarlo Marmori nella sua introduzione al lussuoso volume che Franco Maria Ricci ha voluto dedicare alla «bella polacca», a questo «tableau vivant»: «quando nel luglio 1972, a Parigi, presso la Galerie du Luxembourg fu organizzata una retrospettiva delle opere di Tamara de Lempicka, nessuno conosceva più, nessuno ricordava più questa pittrice tanto in voga ai tempi dello stilista Paquin, questa bella signora dal nome strano, probabilmente di origine slava, che sembrava preso in prestito al raffinato repertorio della pseudonimia jugendstil ...»


Le ragazze, 1928

Ragazza coi guanti, 1928

Ritratto del Doctor
Boucard, 1929

Romana de la Salle, 1929

È vero che la biografia di Tamara de Lempicka, nata Gorska, è piuttosto scarna. Come Greta Garbo, che apparteneva alla cerchia delle sue conoscenze, anche questa diva della pittura Art decó ha fatto di tutto per cancellare quasi ogni traccia e lasciar trapelare solo rari frammenti biografici dietro il velo di un silenzio pieno di mistero: frammenti scelti, s'intende, glorificanti, che si srotolano davanti agli occhi dell'osservatore come gli episodi di un film.

Eccola comparire ora col nome de Lempicka, ora col titolo di baronessa Kuffner, che deve alle sue seconde nozze col barone ungherese Raoul Kuffner. Come venuta dal nulla, fa la sua improvvisa apparizione a Parigi nel 1923: si ritiene che abbia non più di sedici anni. Secondo Adam Riese dovrebbe essere nata, quindi, intorno al 1906 o 1907. Ella stessa, però, dichiara che le sue prime nozze sarebbero avvenute nel 1916. A dieci anni? È nata a Varsavia? Chissà. Almeno una cosa però è certa: arriva, accompagnata dal suo primo marito, Lempicki, direttamente dalla Russia per cercare scampo dal bolscevismo.

Vive la vita bohème di Montparnasse, sul versante dei «ricchi», si capisce, a Auteuil. Per essere un'emigrante ha uno spirito alquanto rivoluzionario, anche se è piuttosto quello di Maria Antonietta che al popolo consigliava: «Non c'è pane? Mangiate biscotti!» Secondo l'espressione di moda negli anni '20, Tamara era «smart».


Donna in blu
con chitarra, 1929

Nana de Herrera, 1929

Saint Moritz, 1929

Ritratto di  Madame Boucard, 1931

Due aneddoti riferiti da Giancarlo Marmori illustrano questo atteggiamento spirituale o, meglio, questo stile di vita. Secondo il primo, una volta, in un periodo in cui certamente Tamara non nuotava nell'oro, sarebbe entrata in una pasticceria e avrebbe comprato una dozzina di bigné alla crema che voleva utilizzare come soggetto per una natura morta. Sennonché la pittrice sarebbe stata così affamata che, senza pensarci due volte, avrebbe preferito fare della futura «natura morta» un bel boccone. Come Jean Cocteau, che frequentava la sua stessa cerchia, Tamara poteva resistere a tutto ... ma non alla tentazione.

 

Teatro del secondo aneddoto è il caffè « La Coupole », ritrovo di artisti e intellettuali nel cuore di Montparnasse, durante una serata in compagnia del pittore futurista F. T. Marinetti. Dopo abbondanti libagioni e un focoso discorso dell'autore del manifesto dei futuristi italiani che terminava con l’appello «Bruciate il Louvre!», tutto il gruppo di artisti e poeti, non più lucidissimo, decide davvero di dare alle fiamme un tal simbolo del passato. Purtroppo, però, l'automobile che avrebbe dovuto portare l'illustre combriccola sul posto – la gloriosa automobile di Tamara – è sparita. L'avventura termina alquanto banalmente al commissariato di polizia, dove l'artista sporge denuncia per furto dell'automobile .. .

In un certo senso Tamara de Lempicka è un dandy, paragonabile a George Brummell o meglio alla contessa Greffulhe che ispirò Marcel Proust per la caratterizzazione della sua duchessa de Guermantes. Ella possiede quel certo non so che rende i suoi modi tanto accurati, tanto inimitabili, tanto perfetti che la sua inconfondibile superiorità s'impone come da sé, irresistibilmente. Questa tendenza al dominio e i suoi devastanti effetti su un uomo possono essere illustrati al meglio dal suo rapporto molto particolare (quasi farsesco) con Gabriele d'Annunzio. Un'avventura sulla quale ci intratterremo ancora e che l'artista riassunse così all'editore Franco Maria Ricci: «Ero una donna bella e giovane e davanti a me avevo un vecchio nano in divisa.»
Un'ulteriore similarità con Brummell – a parte che dandismo non si dovrebbe confondere con eccentricità – consiste nel fatto che il segreto dell'uno e dell'altra dipende da quell'ineffabile aura che ha fatto del primo il principe del suo tempo e dell'altra la star della sua epoca, mentre entrambi hanno lasciato tracce solo molto deboli nella memoria storica.
 


Ritratto di  Pierre de Montaut, 1931

Ritratto di Marjorie Ferry, 1932

Adam and Eve c. 1932

Questo dandysmo si ritrova anche nel decoro di cui Tamara vuole circondarsi. Così, per esempio. dal 1933 fino alla sua partenza per gli Stati Uniti, al culmine della carriera, abita in una dignitosa casa di proprietà a tre piani in Rue Méchain che rispecchia esattamente il suo gusto e che il giornalista Marmori descrive come segue: «Le cronache del tempo non si stancavano di fornire entusiastiche descrizioni dell'arredamento e delle strutture <up-to-date> di questa casa di città progettata da Mallet-Stevens, l'architetto dei conti di Noailles e di Poiret.

Riferiscono di toni grigi e di cromature, di un bar all'americana, di rivestimenti in legno e di tappezzerie beige. Secondo uno di questi cronisti, la camera da letto dell'artista è avvolta in una luce verde sottomarino. La pittrice riceveva qui la crème de la crème di Parigi e i giornali riportavano sempre dettagliati resoconti dei suoi «parties». Nel 1937 vi ricevette gli ambasciatori di Grecia e Perù, van Dongen e la principessa Gagarin, Kisling e il Dr. Woronow [che le fece un'offerta di matrimonio e collezionò le sue opere, n.d.a.], la duchessa di Villarosa e Lady Chamberlain, il suo maestro André Lhote e i coniugi Clémenceau. La bellezza, l'eleganza e la fama dell'artista erano al centro di un'ampia e mutevole cerchia di amici e conoscenti; le personalità di cui si circondava erano come corpi celesti, grandi e piccini, luminosi e spenti. Non pochi reporter cadevano in estasi solo per un suo sguardo (e d'Annunzio l'aveva definita addirittura <donna d'oro», affascinati dalle sue mani, dai suoi capelli, dal suo abbigliamento. A Fernand Vallon, che va a trovarla allorché lei sta lavorando alla sua Andromeda, si presenta <in una veste purpurea, cardinalizia, con smeraldi profondi come il mare: bionda, stupendamente bionda, con mani delicate e ornate da unghie d'un rosso sanguigno>, spinge da parte grandi tele <che ricordano il velluto grigio, lo stesso della sua tappezzeria>.


Ritratto Madame M. 1933

Ritratto di Suzy Solidor, 1933

Mujer al Telefono

Un giornalista del <Monterey Herald>, che poté intervistarla nel 1941, rimase senza respiro all'apparizione di <questo essere slanciato> e della <folta capigliatura rosso oro che le ricadeva sulle spalle>. Tutti sono stupefatti e riescono a parlare di lei solo ricorrendo a iperboli, come fa l'anonimo redattore della rivista <These Women> che ha l'occasione di vederla abbandonata su un divano celestiale, in una veste di satin bianco, ornata, leggiamo, <di piume di marabù bianche e morbide come lana>.

 

Lo stesso cronista aggiunge che Tamara è alta (ed è vero) e, inoltre, magra e liscia, ma dolcemente arrotondata là dove occorre».

E così via fino a Franco Maria Ricci che, con una punta di nostalgia, ricorda: «Un giorno, nel suo appartamento al Grand Hótel, Tamara accavallò distrattamente le gambe e, come in un film, intuii i fantasmi involontari di una seduzione da anni Trenta.»

Le sue prime lezioni di pittura Tamara le prese da Maurice Denis, al la Académie Ranson. Maurice Denis è il pittore celebrato non solo dai suoi contemporanei per quel principio, da lui insegnato ai suoi allievi, secondo il quale non bisognerebbe mai dimenticare che un dipinto, prima d'essere un purosangue in battaglia, una donna nuda o un altro soggetto qualsiasi, è essenzialmente una superficie piana ricoperta di colori accostati in un certo ordine.

Nonostante questa posizione teorica «moderna», Maurice Denis rimase invece per tutta la vita un pittore prettamente decorativo, dallo stile arcaicizzante, postsimbolista, perfino là dove si sforzava in tutti i modi di «rinnovare» il soggetto credendo di combatterlo per mezzo di semplici sostituzioni, come nel quadro Le Muse dove, alle divinità greche comuni in questo genere di pittura, egli sostituisce figure di evidente origine borghese a passeggio per il Bois de Boulogne. In quello stesso periodo uno come Eugène Poughéon non esitava invece ad accostare Veneri e Pegasi a un Jockey-Club, mentre il suo rivale Emile Aubry si permetteva di collocare in stile rococò una vamp liberty sul groppone di un centauro. Ciò non toglie che Maurice Denis fosse un insegnante esigente e metodico e che l'accurata formazione da lui data a Tamara consentisse alla pittrice di creare opere complesse e compiute.


Dormiente, 1935

Donna con guanto verde

Vecchio con chitarra, 1935

L'impronta decisiva, tuttavia, fu data alla formazione di Tamara da André Lhote, un artista versatile, allo stesso tempo pittore, decoratore, critico, insegnante e teorico dell'arte: attività che egli, però, non sempre riuscì a conciliare e che anzi spesso impedirono di realizzare una sintesi delle sue ispirazioni. André Lhote è lo scopritore di un nuovo cubismo, rivisto, un cubismo che è «innocuo» come i colori «borghesi», un cubismo cosiddetto sintetico che Tamara fa immediatamente suo.

Si trattava, in altre parole, di conciliare l'iconografia da salotto (o meglio dei sostenitori dell'accademismo e di altri pittori convenzionali) con gli esperimenti del cubismo d'avanguardia di un Braque, di un Juan Gris o di un Picasso. Insomma, di trovare un cubismo adatto al gusto borghese (in fin dei conti bisogna convivere col proprio tempo), un cubismo addolcito, certamente, che non stonasse nemmeno sulle pareti di una dimora «come si deve» e che non facesse sussultare per lo spavento i visitatori. Lhote era del parere che occorresse trasportare sul piano plastico quello che gli impressionisti avevano realizzato sul piano cromatico; d'altra parte, però, del cubismo lo interessava solo il suo aspetto costruttivistico, razionale, che, a suo parere, consentirebbe di conservare sempre intatti in un dipinto i fenomeni del mondo naturale e le forme degli oggetti, considerato che, per esempio, anche il corpo umano sarebbe un oggetto come gli altri. Questo era ciò che lui chiamava «metafora plastica», alla quale Tamara ricorse sempre nella sua creazione artistica, sia nei suoi harem popolati da provocanti balorde, sia nei suoi nudi, allo stesso tempo allegorie della lubricità, sia nei suoi ritratti dall'espressione affettata, tipica di una certa casta. Il lato negativo di questo atteggiamento risiede indubbiamente nel fatto che questo tipo di neocubismo, derubato della sua forza iniziale, conserva in genere solo gli aspetti più superficiali del cubismo originario. Non è possibile ridurre le figure a puri valori cromatici uniformi solo in nome della plasticità. Significherebbe confondere accademismo e semplificazione del dipinto. Diremmo che André Lhote ha confuso cubismo e geometrismo senza avere capito che il cubismo comporta la completa ridiscussione del sistema figurativo rinascimentale.


I rifugiati, 1937

la Madre Superiore, 1939

Dama in blu, 1939

Questo stile compromissorio visse il suo apogeo nel 1925, a Parigi, con la famosa «Exposition Internatinnale des Arts Décoratifs et Industriels Modernes». In realtà la mostra presentava una cospicua sintesi delle diverse posizioni artistico-decorative del tempo. Tanto nel settore dell'arredamento che in quello degli accessori, della moda, dei tessuti, lo stile Art déco praticato da artisti come Lhote ma anche da La Fresnaye, Valmier ecc., rappresentava il tentativo ufficiale di una sintesi tra i dati del cubismo e una figurazione più semplice, stilizzata.

Viva la distrazione, la gioia di vivere, la sicurezza! In questa illustre società postbellica che, appena disorientata dalla comparsa dei nuovi ricchi e travolta dalla gioventù dei «folli anni Venti», sente la sua forza di resistenza indebolirsi sempre più, Tamara si trova completamente a suo agio. La nuova aristocrazia, decisa a investire i suoi capitali in imprese tanto prestigiose quanto fruttuose, comincia a fiutare la misura del profitto ricavabile da opere d'arte ad effetto e intuisce le enormi possibilità che questo settore può offrire alla speculazione. Non ci vuole molto e illuminati mercanti d'arte impegnati per il riconoscimento di un'arte maledetta – così Durand-Ruel per l'impressionismo e Kahnweiler per il cubismo – vengono sostituiti da ambiziosi e avidi affaristi. Sotto la loro influenza e nonostante iniziali rancori, la borghesia si appropria dell'arte moderna, ben sapendo che si tratta di un valore sempre in crescita. Gli artisti pronti a produrre su ordinazione e impazienti di trovare un posto in qualche collezione privata non mancano. «Ma ti piace?» – «Ah, che vuoi, piano piano ci si abitua!»


Calla Lilies, 1941

Chiave e mano, 1941

Donna in giallo

In fin dei conti quel che conta è far fronte comune contro i bolscevichi, contro l'uomo col coltello tra i denti. Bisogna emanciparsi. Oggi diremmo: bisogna appropriarsi di queste forze, di queste creazioni, per renderle inoffensive, rimanendo tuttavia se stessi. La pittura moderna non deve necessariamente essere considerata reazionaria; anche l'accademismo potrebbe essere in grado di far progredire l'arte senza per questo rivoluzionarla. Con la pittura di un Bonnard, di un Vuillard o di un Matisse si può convivere senza difficoltà. E allora perché non salvare del cubismo e del fauvismo quel che non disturba? I regimi totalitari seguono coerentemente questa dottrina, come in Russia, dove il realismo socialista viene propagato tanto nella pittura quanto nella scultura. René Huyghe lo chiama «ritorno alle forme fenomeniche», come se dopo le grandi catastrofi, dopo i massacri, la vita pretendesse di riavere i suoi diritti.

È il trionfo ufficiale dello stile degli «artistes français», il rifiorire della pittura accademica. Imitazioni moderniste non sono aliene da un certo neo-ingrismo, qui Tozzi, là Kisling. Ingres e il suo Bagno turco – al quale il dipinto di Tamara La bella Rafaela deve molto – godono di ampio favore. Riguardo a svariati pittori allora di moda non si esita a parlare perfino di «cubo-ingrismo». La donna quale soggetto pittorico viene protetta dal «massacro» cui è stata sottoposta dal fauvismo, dall'espressionismo e dal cubismo. Si fa ricorso alla tradizione francese, si difende la «pittura quale mestiere», la pittura senza cosmopolitismo o intellettualismo e si prepara così il terreno per una vera e propria caccia alle streghe, una caccia ai «forestieri» che raggiungerà il suo apice con Hitler, con i roghi di opere d'arte e infine con l'inaugurazione da parte di Goebbels di quella mostra rimasta tristemente celebre col titolo di «Arte degenerata». La parola d'ordine dei saloni è «lavorare con buon gusto e accuratezza». Il nudo femminile – un tema notoriamente molto amato da Tamara – ha una posizione privilegiata quale eredità delle generazioni passate e conseguenza naturale dell'insegnamento accademico. Dopo tutti gli orrori passati, i saloni offrono finalmente il rifugio che ci vuole!

 


Paesaggio  surrealista

Mano surrealista

Personalità di spicco sono, in questo caso, Miklos, Poughéon, Emile Aubry, René Crevel, Fauconnet ... che incoraggiano questo stile decorativo compiacente e compromissorio, velocemente risistemato e riutilizzato in ogni settore dell'arte decorativa, giusto di moda, e ben presto divenuto esso stesso una forma di accademismo. Un critico del tempo, difensore di questa corrente, diffonde il suo punto di vista con un pamphlet dal titolo «La folle picturale», nel quale si sofferma sull’opposizione esistente tra arte vera e arte d'ispirazione «bolscevica».

 

«Hanno stupidamente osato sabotare perfino il disegno» scrive «una scusa da ignoranti, scansafatiche e pressapochisti. E chi sostiene che la deformazione sia il mezzo giusto e immancabile per dare forza all'espressione, ricorre a una sofisticheria fin troppo evidente ... Si può capire un dramma solo con la verità del movimento, con l'espressione del viso, col decoro, col colore, e questo è ciò che l'artista deve dare. Ma per un espressionista o un surrealista è molto più comodo ricorrere alla caricatura e alla bruttezza. E di questo dovremmo esser loro perfino grati, del fatto che riconoscono che la pittura dovrebbe cercare di significare qualcosa. Come dice, non a caso, la nuova formula? <La pittura d'oggi non deve esprimere sentimenti di sorta>. Appunto: tanto vale guardare una collezione di farfalle o un tappeto turcmeno, allora. Se un'arte che pretende di essere <viva> viene ridotta a simili pochezze, c'è ben poco da fare. Quando i mosaicisti bizantini o gli affrescatori delle cattedrali ricorrevano alla deformazione, vi erano costretti dalla cena oppure dalla particolare illuminazione, e con quanta intelligenza vi riuscivano!»

Eterna polemica: gli stessi argomenti che vengono utilizzati ogni volta si pretenda di dividere le avanguardie dall'estetica ufficiale momento.

Un sermone del genere, comunque, sarebbe stato solo l'inizio, il peggio doveva ancora venire. Perfino Lhote, insieme a Bissière, non esitò a lanciare un «appello all'ordine» che oggi, con l'opportuna distanza storica, può suonare solo tremendo. Chiunque doveva ritornare a «scuola del museo», al Louvre, dove da poco era stato inaugurato con gran pompa l'Atelier di Courbet. In un suo intervento incluso nel catalogo della mostra «Les Réalismes» del Centre Georges Pompidou, Christian Derouet stabilisce che «il concetto di realismo in quanto tale non definisce alcuna categoria pittorica; la parola caratterizza un certo atteggiamento dell'artista e non di rado assume piuttosto una connotazione negativa, nel senso che chi lo pratica si oppone proprio all'avanguardia del suo tempo, insomma è reazionario.»


Ametista, 1946

Ragazza messicana, 1948

Per poter comprendere l'entità del contributo di Tamara alla sua epoca, bisogna dunque vedere le sue opere nel contesto storico in cui sono nate: gli anni Venti, l'epoca del compromesso Art déco, e gli anni Trenta, tristemente famosi per l' «appello all'ordine» di André Lhote. Il postcubismo degli anni Venti ovvero il neoclassicismo degli anni Trenta imprimono in quest'epoca un segno profondo.

Il che non significa che Tamara non vada al di là di questo, che l'erotismo o le deformazioni dei suoi dipinti siano piuttosto ispirati da Ingres che non dal cubismo, che il suo neoclassicimo, di solito per definizione pudico, in lei non acquisti tratti piuttosto osceni.

Questo non toglie niente al fatto che le donne di Tamara fossero perfettamente adeguate alla sua epoca, un'epoca di lusso e di agiatezze per i ricchi e di estrema miseria per gli altri. La funzione di queste donne consisteva nell'indossare abiti alla moda o frivolmente esotici e, all’occasione, nel mettere in mostra gioielli, sempre sullo sfondo di vistosi interni. Queste creature dalle gambe lunghissime, col vicino di vespa, che danno l'impressione di essere appena uscite da una rivista di moda, ricordano quelle «Eve», sciocchine e dallo sguardo languido, del tipo «sii bella ma chiudi il becco», per le quali si azzuffavano banchieri e politici che le mantenevano come maìtresses di lusso. Tra le eroine di Tamara ce ne sono alcune davanti alle quali uno inorridisce solo al pensiero che potrebbero davvero aprire la bocca e cominciare a parlare ...

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