Antonio Canova

Possagno, Treviso 1757 - Venezia 1822
 

Antonio Canova nasce il 1 ° novembre 1757 a Possagno, paese allora soggetto alla Repubblica veneta.
Per l'economia possagnese quelli non erano anni floridi; Antonio ebbe però la fortuna di nascere in una famiglia dove da generazioni si tramandava la lavorazione della pietra, mestiere che sarebbe stato fondamentale per tutta la sua vita. Valente scalpellino era il padre, Pietro Canova, che morì a ventisei anni, quando il figlioletto non ne aveva ancora quattro. La madre, Angela Zardo, dopo un anno di vedovanza si risposò con Francesco Sartori di Crespano, con il quale ebbe quattro figli. Uno di questi, Giambattista, che volle poi aggiungere al suo il cognome Canova, intraprese la carriera ecclesiastica e dal 1800 convisse a Roma con il fratellastro, ormai scultore famoso.
Col nuovo matrimonio Angela s'era trasferita a Crespano e aveva affidato il piccolo Tonin ai nonni paterni, che provvidero al suo mantenimento, gli diedero la prima educazione e vissero fino ad assistere al grande successo artistico e alla prestigiosa affermazione sociale del nipote. La perdita del padre e l'abbandono della madre, che il figlio non rivide più per trent'anni, incisero dolorosamente nell'animo sensibile di Antonio. Scalpellino, capomastro, modesto architetto, il nonno Pasino si era guadagnata una certa stima locale. Tra il 1766 e il 1768, lo portava con sè nei lavori di riordino e di abbellimento della villa del ricco e potente senatore veneziano Giovanni Falier, eretta su progetto del Massari ai Pradazzi di Asolo. Le statue per il giardino erano state commissionate allo scultore Giuseppe Bernardi, detto Torretto, che aveva una fiorente bottega a Venezia. Per questo lavoro si era temporaneamente trasferito a Pagnano, suo paese natio, poco lontano dalla villa Falier. Tra Pasino, il senatore e il Bernardi, ch'era un vecchio amico di casa Canova, si crearono rapporti di cordiale familiarità, che giovarono anche al piccolo apprendista. Antonio trovò nel Falier il suo primo mecenate, che lo incoraggiò quando il nonno lo mise, fanciullo di nove anni, a bottega dal Bernardi. Poi il senatore lo raccomandò a varie personalità del mondo artistico veneziano, lo incaricò di eseguire per conto suo i primi lavori, cioè i due Canestri di fiori e le statue di Euridice e Orfeo da lui modellate tra i diciassette e i venti anni; gli procurò anche la commissione del Dedalo e Icaro da parte del senatore Pietro Vettor Pisani. Infine lo raccomandò, nel suo primo viaggio a Roma, all'ambasciatore veneto Zulian e nel 1781 s'interessò per fargli avere dalla Serenissima la pensione triennale di 300 ducati annui.

 


Amore e Psiche

 Teseo e Minotauro

Se nel Falier Canova incontrò il primo mecenate, in Giuseppe Bernardi trovò il primo vero maestro. Questi aveva ormai settantaquattro anni, quando nell'autunno del 1768, finiti i lavori per la villa Falier, tornò a Venezia, portando con sè l'undicenne Antonio. Tipico rappresentante del rococò, trasfondeva nelle sue sculture una sottile sensualità e torniva le forme fino ad un'estrema levigatezza, caratteristica questa che trasmise al suo giovane allievo.
 

 

 

Il Canova lavorò nella bottega del Bernardi fino alla morte di lui, avvenuta nel 1773. Il contratto di “garzonado” gli garantiva vitto e alloggio e 50 soldi al giorno e gli consentiva di frequentare alla sera la scuola del nudo nella pubblica Accademia. Dal 1770 potè avere libera mezza giornata, grazie all'aiuto finanziario del nonno Pasino, che a questo scopo aveva venduto un suo podere. Andava così a studiare i calchi in gesso di statue antiche nella Galleria Farsetti, ch'era un centro di diffusione del gusto classicista nell'ambiente veneziano. Questo primo approccio, seppur mediato, alla scultura classica fu fondamentale per la formazione del Canova, che nel 1775 si mise in luce vincendo un concorso con la copia dei Lottatori, il cui gesso stava proprio nella Galleria Farsetti.
Assai importante fu per il giovane artista la pratica compiuta presso il Bernardi, perché poté apprendere, oltre ai segreti dello scolpire il marmo, il modo di organizzare tecnicamente ed economicamente una bottega. Ciò gli riuscì di grande utilità quando venne anche per lui l'ora di aprirne una propria. Morto il Bernardi e subentrato nella direzione il nipote scultore Giovanni Ferrari (1774-1826), il Canova pochi mesi dopo, incoraggiato anche dal Falier, si mise in proprio, affittando una modesta stanza nel convento agostiniano di Santo Stefano. Nel 1777, raggiunte maggiori possibilità economiche, aprì un nuovo e più ampio studio a San Maurizio.
 

Le sue prime opere veneziane furono i due Canestri di fiori e frutta, scolpiti per commissione del Falier e acquistati dall'abate Farsetti per il suo palazzo. Collocati sul primo ripiano dello scalone, vennero logorati col tempo. Trasferiti nel 1852 al Museo Correr, furono restaurati nell'anno successivo da Pietro Zandomeneghi. Nel Museo Correr sono oggi anche le statue a grandezza naturale di Euridice e Orfeo, che il Falier commissionò nel 1773 per il giardino della sua villa ai Pradazzi.
 

Il gruppo, soprattutto l'Orfeo, rivela chiaramente l'originalità dello scultore, che non si accontenta di fare un'opera descrittiva ma vuole esprimere il dramma dei personaggi raffigurati. Esposte nel 1776 in piazza San Marco, alla fiera annuale dell'arte veneziana nella “Festa della Sensa”, le due statue furono ammiratissime e segnarono l'inizio della folgorante carriera canoviana. Una replica marmorea dell'Orfeo del Correr, commissionata da M.A. Grimani nel 1777, è ora all'Ermitage di San Pietroburgo.
 

Sempre nel 1776 il Canova eseguì per il senatore Angelo Querini il busto in terracotta del doge Paolo Venier (ora al Museo Civico di Padova). Nel volto del doge, illuminato da un arguto sorriso, lo scultore dimostra d'aver assimilato la penetrante ritrattistica di Alessandro Longhi. La famiglia Renier, come quella Falier, era una delle più colte e illuminate del patriziato veneto. Nella festa che si tenne in casa Renier per l'elezione del doge, il Canova venne presentato a Gerolamo Zulian, che stava per andare come ambasciatore a Roma. Conversando con lui, lo scultore affermò che per un artista non era necessario lo studio delle opere antiche ma gli bastava ispirarsi alla natura. Questa sua affermazione gli procurò poi la diffidenza dei circoli artistici e intellettuali romani, che sostenevano invece l'imitazione degli antichi.

Nel 1777 il Canova fu incaricato dal procuratore Pietro Vettor Pisani di eseguire a grandezza naturale il gruppo in marmo del Dedalo e Icaro per il suo palazzo (oggi è al Museo Correr). Con quest'opera, terminata nel 1779 ed esposta con vivissimo successo alla “Fiera della Sensa”, Canova ottenne il decisivo riconoscimento dell'ambiente artistico veneziano.

Guadagnò pure la cospicua somma netta di cento zecchini, con cui poté recarsi a Roma, per quel soggiorno di studio che allora sembrava necessario alla buona formazione d'un giovane artista. Fu incoraggiato a questo viaggio anche dallo scultore Antonio D'Este, ch'era stato suo condiscepolo, più anziano di tre anni, nella bottega del Bernardi e che per primo si era trasferito nell' Urbe. Legato al Canova da profonda amicizia, il D'Este divenne suo prezioso consigliere in molte questioni, come nei contratti e nell'acquisto dei marmi, e fu da lui nominato proprio esecutore testamentario. Prima di partire, il Canova ebbe la soddisfazione d'essere accolto nell'Accademia veneziana, alla quale, com'era consuetudine, donò una sua opera: l'Apollo in terracotta (oggi nella Galleria di quell' Accademia) d'evidente influsso berniniano. Gli fu anche affidato l'incarico d'insegnamento per l'anno successivo, che però il viaggio gli impedì d'esercitare.

 


Monumento Clemente XIII Rezzonico
(Basilica di S.Pietro, 1784)

Venere italica

Giunto a Roma il 4 novembre 1779, Canova ritrovò Gerolamo Zulian, l'ambasciatore veneto presso la Santa Sede, che divenne suo amico e mecenate. Ne aveva bisogno, perché gli artisti e i critici romani dimostravano molta freddezza nei suoi confronti, ritenendolo uno spregiatore dell'antico. Canova in realtà non disprezzava le opere antiche ma la loro meccanica imitazione, voleva inventare non copiare.
Con molto calore lo accolsero invece gli artisti veneti che risiedevano a Roma: Giovanni Volpato, Francesco Piranesi, Pier Antonio Novelli e Gian Antonio Selva, che l'ambasciatore incaricò di fargli da guida nel suo soggiorno romano.

 


Lo Zulian ospitò il giovane possagnese nel Palazzo Venezia, sede dell'ambasciata veneta, e gli concesse anche una stanza per suo studio. Accortosi delle sue lacune culturali, gli mise a disposizione il proprio segretario, l'abate Foschi, perché 1o istruisse nell'italiano, nell'inglese, nel francese e lo guidasse alla conoscenza dei classici e della mitologia, materia di grande moda in quel tempo. Da allora il Canova prese l'abitudine di farsi leggere, mentre scolpiva, le pagine degli autori che trattavano il soggetto della sua opera.
A Roma poté nutrirsi di quel fervore d'idee che si sviluppò nella seconda metà del Settecento per opera dei primi appassionati cultori del mondo classico. Tra questi c'era il boemo romanizzato Anton Raphael Mengs, il pittore filosofo che, per superare l'ambiguità e l'irrazionalità del barocco, proponeva d'imitare i grandi maestri classici. Solo così - affermava - si può attingere la bellezza, che dipende dalla ragione e non si trova perfetta nella natura ma si può realizzare nell'arte con la scelta di quanto di meglio e di più utile esiste nella natura.
Insieme al Mengs, di cui era amico, spiccava il tedesco Johann Joachim Winckelmann, il fondatore della storia dell'arte in senso moderno. Egli elevava a modello l'arte greca, in cui - diceva- la bellezza coincide con la verità, la virtù e la ragione. L'ideale neoclassico teorizzato da Mens e da Winckelmann trovò nello scultore Canova il più fine e sensibile interprete, come nella pittura lo fu, ma in modo più severo e rivoluzionario, il francese Jacques-Louis David.
Canova trascorreva gran parte del suo tempo a studiare quello che l'intellettuale francese Quatremère de Quincy definiva il museo di Roma, fatto di "statue, di colossi, di templi, di terme, di circhi, di anfiteatri, di archi di trionfo, di tombe, di stucchi, di affreschi, di bassorilievi". Visitava le sontuose chiese romane, le ricche collezioni pubbliche e private, frequentava la scuola di nudo all'Accademia di Francia e quella al Museo Capitolino. Appassionato dello spettacolo della danza, si recava spesso a teatro, fissando le figure dei ballerini e annotandone i loro nomi. Di tutto schizzava su taccuini le impressioni.
Tra il gennaio e il febbraio del 1780, con l'amico architetto Selva compì un viaggio a Napoli, Ercolano, Pompei, Paestum per visitare i luoghi dove gli scavi stavano riportando alla luce un prezioso patrimonio archeologico. Davanti a quei reperti del mondo antico, provò intense emozioni ma sentì anche un vivo desiderio di studiarli più a fondo. Fu per lui un'esperienza entusiasmante, che contribuì ad orientarlo sempre più consapevolmente verso il neoclassicismo. Tornato a Roma, si fece spedire il gesso del Dedalo e Icaro per mostrare, nel diffidente ambiente romano, una prova delle proprie creazioni. L'opera venne esposta in Palazzo Venezia ma non ottenne unanime consenso da parte dei dotti e degli artisti che la videro. Tra gli ammiratori vi era quel Gavin Hamilton, mediocre pittore neoclassico ma fine e appassionato antiquario, che diventò amico del Canova ed ebbe un ruolo decisivo per farlo conoscere nel mondo inglese.
L'ambasciatore Zulian, fermamente convinto che il giovane scultore avrebbe potuto dare il meglio di sè stesso solo a Roma, lo persuase a prendervi stabile dimora. Per questo chiese al Senato veneto di concedere al Canova una pensione, che alla fine del 1781 fu accordata; come già si è detto, con la somma annuale di 300 ducati in argento per tre anni. Nel giugno del 1780 lo scultore, d'accordo con lo Zulian, rientrò a Venezia per finire alcune opere, tra cui la statua del Poleni per il Prato della Valle di Padova, e poi chiudere bottega.
Nel dicembre di quello stesso anno tornò a Roma e fu invitato dallo Zulian a scolpire un'opera a soggetto libero in un blocco di marmo del valore di 300 ducati, regalatogli dallo stesso ambasciatore. Si accinse così a scolpire il Teseo sul Minotauro (oggi al Victoria and Albert Museum di Londra), ispirato dal racconto di Ovidio, e lo finì due anni dopo, nel 1783.

In questo gruppo statuario, apprezzatissimo da artisti e critici, diede prova d'aver assimilato gli stimoli dell'ambiente romano e le idee del neoclassicismo. Con perfetto dominio dei mezzi tecnici e formali, seppe infondere nel giovane eroe seduto sul mostro abbattuto "la nobile semplicità e la quieta grandezza", che Winckelmann aveva indicato come le qualità supreme dell'arte greca. Un giorno il Quatremère de Quincy, fine intenditore, si recò nello studio del Canova a Palazzo Venezia per vedere il Teseo e ne rimase affascinato. Tra il teorico e lo scultore nacque una profonda amicizia e si stabilì un'intesa culturale destinata a durare per tutta la vita. Per il Quatremère Canova incarnava il tipo ideale dell'artista, completo nei suoi attributi, appassionato dell'archeologia e dell'estetica, tutto dedito all'arte, impassibile di fronte alle rivoluzioni politiche, disinteressato per la ricchezza, ritenuta solo un mezzo per favorire l'attività creativa. Al Quatremère il Canova sottoponeva i progetti delle proprie opere e da lui aspettava, con umiltà ma senza rinunciare alla propria autonomia artistica, un consiglio o un giudizio. A lui molto dovette lo scultore del metodo dell' "esecuzione sublime" adottato nel procedere dal bozzetto al marmo finito. Il successo del Teseo accrebbe la sua fama anche oltralpe e gli procurò importanti commissioni. Nel 1783 venne incaricato del monumento sepolcrale per il papa Clemente XIV da erigersi nella basilica romana dei S.S Apostoli.

Per questo incarico si era generosamente interessato, contro la rivalità degli artisti romani, l'incisore bassanese Giovanni Volpato, con la cui figlia Domenica il Canova si era fidanzato ma che lasciò quando venne a sapere che si era innamorata dell'incisore polacco Raffaello Morghen, allievo dello stesso Volpato. La delusione sentimentale lo scoraggiò dall'intraprendere altre relazioni amorose e lo spinse a concentrarsi ancora di più nel suo lavoro. Fortissimo fu l'impegno per la nuova opera. Lo scultore stesso si recò a Carrara per scegliere accuratamente il marmo ed eseguì non solo i bozzetti ma anche il modello in creta a grandezza naturale. Per sostenere la creta di questo modello, si servì di uno scheletro portante formato da un'asta metallica, alta quanto la statua da eseguire e congiunta a più piccole aste fornite alle estremità di crocette in legno. Questo sistema, che gli permetteva di verificare l'effetto dell'opera prima di tradurla nel marmo, venne da lui costantemente usato anche per le successive creazioni. Dal modello in creta lo scultore passava a quello in gesso, sul quale poi fissava i punti di repere, che servivano ai lavoranti per la giusta sbozzatura del marmo. Alla statua così sbozzata lo scultore dava l'importantissima "ultima mano" a lume di candela. Infine il marmo, levigato a lungo da un lavorante, assumeva quella suprema finitezza formale, che ancor oggi suscita tanta ammirazione.
Dopo quasi tre anni d'intenso lavoro nel suo nuovo studio in via San Giacomo (ora via Canova), il monumento era pronto. Solennemente inaugurato nell'aprile del 1787, fruttò al Canova diecimila scudi più altri mille di premio e lo consacrò come il massimo scultore contemporaneo. Da allora e fino alla morte egli godette d'un prestigio paragonabile a quello ai loro tempi tributato a Michelangelo e a Bernini. Poi nel corso dell'Ottocento, la sua fama si oscurò e le sue opere vennero colpite da sprezzanti giudizi. Solo in anni più recenti, nell'ambito di una rivalutazione dell'arte neoclassica, il Canova è riapparso in tutta la sua grandezza e, dopo la grande mostra sul neoclassicismo allestita a Londra nel 1972, ha raggiunto la collocazione storica che gli compete.

Il monumento a Clemente XIV era stato eseguito, come si è detto, nello studio in via San Giacomo, che nel 1803 fu ampliato per poter corrispondere alle accresciute esigenze. Nel febbraio del 1805 un'inondazione del Tevere causò gravi danni allo studio e in quel frangente lo stesso scultore corse grave pericolo. In quest'ambiente, dove lavorò per tutto il resto della sua vita, Canova conservava i bozzetti in terracotta e i gessi delle opere già eseguite (ora sono custoditi in massima parte nella Gipsoteca di Possagno), sia per trarne spunti di nuove invenzioni sia per mostrarli ai clienti in vista di eventuali ordinazioni. Papi e sovrani, nobili e ricchi borghesi, artisti e intellettuali italiani e stranieri visitarono quello studio, di cui il pittore Francesco Hayez ci ha lasciato una precisa e vivace descrizione: "Lo studio si componeva di molti locali, tutti pieni di modelli e di statue, e qui era permesso a tutti l'entrata. Il Canova aveva una camera appartata, chiusa ai visitatori, nella quale non entravano che coloro che avessero ottenuto uno speciale permesso. Egli indossava una specie di veste da camera, portava sulla testa un berretto di carta; teneva sempre in mano il martello e lo scalpello anche quando riceveva le visite; parlava lavorando, e di tratto interrompeva il lavoro, rivolgendosi alle persone con cui discorreva."
Per traforare il marmo del monumento a Clemente XIV il Canova usò a lungo il trapano, comprimendolo con il torace. Si procurò così quella deformazione delle costole di destra, che gli causò sempre più gravi disturbi allo stomaco e che contribuì alla sua morte.
Ammiratore del Canova era anche il patrizio veneto e senatore di Roma Abbondio Rezzonico, il proprietario della monumentale villa di Bassano. Egli dapprima gli commissionò un Apollo che s'incorona, poi, quando lo scultore non aveva ancora cominciato il lavoro per la tomba di Clemente XIV, lo incaricò di eseguirne una per lo zio Carlo Rezzonico, papa Clemente XIII, da porre in San Pietro. In essa Canova elaborò ulteriormente lo schema berniniano già adottato nel monumento a Clemente XIV. Semplificò la composizione piramidale, con il papa inginocchiato sul sarcofago, ai suoi lati le statue della Religione e del genio funebre, alla base due leoni accasciati.

Nella rigorosa forma neoclassica l'immagine della morte perde la drammaticità barocca e attinge una nobile calma elegiaca. Si racconta che, durante la spettacolare cerimonia con cui nella notte del giovedì santo del 1792 Pio VI inaugurò il monumento in San Pietro, il Canova si mescolò alla folla travestito da frate mendicante per poter più liberamente ascoltare i commenti. Alle opere di soggetto religioso egli alternava nella sua produzione quelle di soggetto profano, come Amore e Psiche giacenti (ora al Louvre) che ebbe tanti ferventi ammiratori ma anche accaniti detrattori.

 

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